Nicola Zitara – FORA... 13/10/2002
Il lavoro e l’indipendenza nazionale
Nicola Zitara
Le due penultime generazioni di meridionali hanno (abbiamo)
campato e campano di lavoro dipendente, sia privato sia pubblico. Alla
fine del mese si andava ( e si va) a riscuotere una paga, poca o molta
che sia, sudata o non sudata che sia. L’educazione dei nostri figli è stata
impostata su tale modello.
La scuola, l’ambiente sociale, le idee prevalenti, l’azione politica e
sindacale hanno portato i giovani a immaginare che avrebbero ripetuto
la vita dei padri e delle madri. Anche il clientelismo, che imperversa da
cento anni nelle nostre regioni corrisponde alla diffusa esigenza di
ottenere un posto stabile e uno stipendio sicuro nel settore del lavoro
dipendente. Ma mentre tutto andava secondo tale paradigma,
l’organizzazione produttiva è cambiata radicalmente. In patria, le
fabbriche sono sempre di meno. I padroni le portano all’estero, in
cerca di bassi salari, oppure (in patria) restano aperte, ma il lavoro e il
salario vanno agli extracomunitari. L’espansione – quel poco che c’è –
si ha prevalentemente nel lavoro autonomo. In Occidente la tendenza
generale è che ogni lavoratore diventi l’azienda di sé stesso. La
generazione educata al posto fisso, nel momento in cui si affaccia
all’esigenza di lavorare e di guadagnare, incontra forti difficoltà ad
adattarsi.
Tuttavia, il fatto di sbattere il muso contro ostacoli duri da superare
non modificherà una tendenza che coinvolge tutto l’Occidente ricco, e
non è modificabile certamente da idee in controtendenza (tranne il
totale crollo del sistema capitalistico ad opera di una rivoluzione). Le
tendenze mondiali l’hanno sempre avuta vinta sulle tendenze locali.
Per i giovani meridionali il disagio raddoppia. Dopo aver annientato
l’industria borbonica, che faceva del Napoletano il paese più
industrializzato dell’Italia preunitaria (tutti i libri di storia falsificano il
dato) e dell’intera area mediterranea, il sistema-Italia ha annientato
anche il vecchio artigianato meridionale, e con esso il concetto stesso
di lavoro autonomo. La confusione mentale di cui oggi soffre la
gioventù meridionale discende in gran parte dal fatto che manca ormai
l’esempio di una classe che sapeva sbrigarsela anche senza il posto
fisso. A riguardo è utile il confronto con le regioni venete, il cosiddetto
Nordest. Quarant’anni fa, quelle regioni - nonostante la particolare
attenzione che il fascismo aveva avuto per Venezia e Trieste, con
prolungamento alla Romagna - erano ancora a uno stadio produttivo
alquanto basso, se confrontate con il Triangolo industriale (Genova,
Torino, Milano) dominato dalla Fiat, dall’Ansaldo, dalla Breda, dalla
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Pirelli, dalla Montecatini ecc. (diversamente da quel che si legge nei
libri patrii, tutte industrie a profitti privati e costi pubblici).
Oggi le Venezie sono all’avanguardia dell’Italia che produce e che
vende. Qual é la ragione del miracolo?
Le Venezie erano popolate da contadini-piccoli proprietari usi alla
fatica, ma poveri e poco istruiti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale
quei contadini poveri andarono a lavorare, chi in Svizzera, chi in
Germania, allo stesso modo dei loro padri, che subito dopo l’unità
nazionale, spinti dalla fame, erano andati a popolare l’Argentina e altri
paesi del Sudamerica. I nuovi emigrati non rimasero, però, nel luogo di
immigrazione.
Se ne tornarono a casa – sicuramente un luogo più accogliente dei
civili paesi cosiddetti di accoglienza - portando con sé qualche
capitaluccio, che usarono per avviare delle aziende familiari sotto la
guida dei loro parroci e delle banche cattoliche, particolarmente (e
storicamente) diffuse in quelle regioni. Con molti sacrifici e grande
coraggio affrontarono il mercato, nemico dei deboli. Il protezionismo
latteario e allevatorio della Comunità Europea ha fatto il resto. Se, nel
cinquantennio trascorso, le collettività venete fossero state guidate –
come il Meridione - da gente assoldata dai governi centrali, oggi i
giovani veneti avrebbero in materia di lavoro gli stessi problemi dei
giovani meridionali.
La classe politica che rappresenta i meridionali a livello nazionale e
locale è modellata sul totale fallimento a cui sono state condotte, nel
Sud, tutte le classi – ivi compresa la vecchia borghesia degli affari e
della rendita. Il ricatto nordista ha dato vita a una consorteria di
politicanti, che non essendo controllati dai cittadini da cui sono eletti,
ma solo ed esclusivamente dal potere centrale, sanno che, se vogliono
restare al posto che occupano, il loro compito è di desolare il
Meridione, in modo che continui a stare sotto i toscopadani e la
burocrazia romana. Le falsificazioni di questa gentaglia non hanno
limiti. Fingono di piangere sui maltrattamenti toscopadani, ma, poi,
quando potrebbero fare qualcosa, si bloccano e fanno finta di non
sapere da dove cominciare. Non esagero per spirito polemico. E'le pura
e semplice verità!
Siamo all’assurdo! A fronte della disoccupazione imperversante, il
Sud ha forti esuberi di risparmio. Le banche sono piene di soldi.
Peraltro gli attuali disoccupati non sono più i contadini e i braccianti
analfabeti, prima reclusi reclusi in campagna dal sottosviluppo
programmato in Padana, e poi sparati a Colonia e a Torino. I giovani di
oggi sono preparati a inserirsi nelle attività più moderne, tanto che
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paesi all’avanguardia, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la
Germania, la Svizzera, li considerano lavoratori da integrare
immediatamente. Inoltre, da qualche anno l’Unione Europea ha messo
a disposizione del Sud centinaia di miliardi (in termini di ex lire) di
fondi regionali per lo sviluppo, ma essi si guardano bene dall’utilizzarli.
Fanno finta di non sapere come si fa e non preparano i progetti da
inviare a Bruxelles.
Ma questo è il meno. Il più sono i circa 100 mila miliardi che
vengono annualmente drenati al Nord dalle banche milanesi, qui scese
per beccarseli. Eppure non si vede e non si sente un deputato, uno
soltanto di loro, che si opponga a questa forma di imposta coloniale;
che solo muova le labbra per denunziare la cosa! Se la cappa di piombo
che pesa sulla vita e il lavoro dei meridionali da 140 anni, fosse
rimossa, i dieci o dodici milioni di meridionali in età produttiva, ma
tagliati fuori dalla produzione, farebbero presto (soltanto pochi anni) a
toccare e superare la produzione del Nordest Una cosa che oltre tutto
sarebbe nell’interesse degli altri 35 milioni di italiani.
Chiunque abbia studiato un po'd’economia politica sa che le cose
stanno così. Ma non se ne parla. Come non si parla dell’industria
parassitaria che per un secolo ha fatto capo alla Banca d’Italia, ai
signori Agnelli, Pirelli, Crespi e via dicendo, insomma al salotto buono
di Milano. Come non si parla del fatto che questi padroni ottocenteschi
e il sindacato, loro storico alleato, guardano al Sud soltanto per gli
sbocchi coloniali che esso offre, a partire dai libri scolastici per finire
alle opere pubbliche. I nostrani onorevoli tacciono. Tacciono per la
gola, per una Mercedes da cento milioni, per un posto di medico
ospedaliero da assegnare al figlio cazzone! Tacciono perché non
appartengono veramente al nostro popolo. Sono estranei, anzi
stranieri, peggio ancora, mozzi di stalla addetti alle scuderie dei signori
milanesi.
Utilizzando i fondi regionali europei e i nostri stessi risparmi, nei
prossimi quattro anni il Sud disporebbe di ben 500 mila miliardi in
termini di vecchie lire. Con una cifra del genere si può fare la Silicon
Valley! Ma per arrivare a questo ci vuole la guida di uno Stato, uno
Stato nostro, uno Stato indipendente, e non l’azione ostruttiva di uno
Stato nemico. E'necessaria, urgente una vera separazione, e non il
separatismo stronzobossista, tipo separati in casa, in base al quale uno
dei due coniugi mangia e fotte, e l’altro lava i piatti. Se non si arriva
all’indipendenza, i nostri soldi continueranno a viaggiare
telematicamente verso il Nord. Le banche e le finanziarie toscopadane
continueranno a prestarci i nostri stessi soldi, facendoci pagare gli
interessi che loro decidono, affinché noi possiamo comprare le loro
merci.
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No, l’unità d’Italia non ci ha solo impoveriti, ci ha anche rincretiniti.
Il deprecabile evento ci è costato in termini di sangue cinquecentomila,
e forse un milione di morti nella guerra di liberazione, dai padroni
definita brigantaggio; morti ammazzati da baionette italiane, a cui noi
oggi siamo obbligati a inneggiare; morti per i quali non è lecita una
lapide che li ricordi. A questi morti di morte cruenta bisogna
aggiungere i 30 milioni di meridionali (il doppio della popolazione
residente al censimento del 1936) a cui è stato imposto di lasciare il
loro paese e di perdere una patria.
In termini economici, l’unità d’Italia è costata a noi meridionali più
di cinque eruzioni del Vesuvio e più di venti terremoti di Reggio e
Messina. Sei o sette generazioni completamente bruciate! E oggi i
giovani non hanno un lavoro perché – in effetti - la patria così vuole.
La situazione è questa. Tutto il resto è presa per i fondelli. Se i giovani
meridionali non vogliono continuare a essere privati della libertà, e
trovarsi fra dieci anni (il tempo prescritto da Bossi) nella condizione in
cui oggi si trovano i palestinesi, costretti a difendere la propria identità
di popolo lanciando pietre contro i carri armati, bisogna che smettano
di aspettare il miracolo e si mettano subito a fare politica. Per loro
stessi, per i loro figli, che patiranno più di loro, per i morti in difesa
della nostra indipendenza, per i villaggi bruciati e le popolazioni
passate per le armi, per i loro nonni, padri e fratelli, deportati al
servizio di altri, come gli antichi magnogreci ridotti a Roma in
schiavitù, per i nostri campi devastati e resi improduttivi, per le nostre
fabbriche chiuse o rubate, per i nostri risparmi, frutto di sudore e di
sangue, che vengono sprecati e sporcati da capitalisti inetti e degeneri;
per questo e molto altro ancora bisogna che essi – i giovani – decidano
di porre fine a una truffa politica – l’unità - che ci ha portato a una
condizione peggiore di quella che avevano gli Iloti sotto la sferza degli
Spartani.
Coraggio, è l’ora di prendere il vostro destino in mano. Domani
sarebbe troppo tardi!
Nicola Zitara
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