venerdì 15 aprile 2011

Calabria Day


Il 16 aprile prossimo lei sarà uno dei testimonial della Calabria positiva. Quella che vuole emergere sulle negatività e mostrare una nuova immagine di sé. Se questa è una delle strade possibili, cosa si potrebbe affiancarle?

«Non credo sia necessario affiancare qualcosa, ma incrementare quello che c’è: la volontà. Qualunque sia l’impresa, la costruzione umana, essa è o non è, secondo che ci sia o no la volontà. E io la vedo germinare, con forza e varietà sorprendenti, in Calabria. La regione lavora molto sul suo passato e sul suo futuro: sia con il fiorire di iniziative identitarie e popolari (gruppi musicali, teatrali, di ricerca storica), per il recupero della memoria: mi verrebbe da dire che l’antropologia culturale, più che la storia, è strumento politico, in Calabria; sia con la nascita di esperienze come “Io resto in Calabria”, “E ora ammazzateci tutti” o i giovani che trasformano in occasione di sviluppo i beni sottratti ai mafiosi: segnali forti, che denotano volontà e generano emulazione. Riassumo: il cosa c’è già; il come si sta delineando; il quanto (la formazione di massa critica, punto di non ritorno) è solo questione di tempo, se la volontà non verrà meno».


• Dal punto di vista storico-sociale quali fattori, secondo lei, hanno inciso più di altri sull’attuale condizione della Calabria?

«Uno; l’isolamento dal resto del Paese; l’isolamento all’interno stesso della Calabria: ogni paese un mondo chiuso agli altri; l’assenza di vie di comunicazione che rompessero questo isolamento. Se volessi riassumere, direi: strade, binari e marinai (non pescatori, marinai, di cui la Calabria è sempre stata scarsa, a parte qualche cristiano rinnegato poi divenuto pirata musulmano). Due: la spaventosa, per quantità, “perdita dei padri”: l’emigrazione postunitaria distrusse il sistema delle regole; una famiglia su tre era composta di sole donne, a cui l’evoluzione della specie ha assegnato la ricerca di tutte le eccezioni possibili a favore dei propri figli. Una pulsione positiva che, in condizioni degradate, diviene negativa: la mafia coltiva le eccezioni a proprio vantaggio, distruggendo le regole che mirano al bene di tutti».


• Perché la “Calabria positiva” stenta a guadagnarsi lo spazio che merita?

«Le condizioni in cui deve muoversi per conquistare spazio sono terribili. I calabresi consapevoli e “conseguenti” devono essere eroi per fare cose normali altrove. Ma sono sempre di più a farlo. Non tanti quanto servirebbe, ma tanti di più rispetto al rassegnato silenzio di ieri».


• C’è chi sostiene che la Calabria è persa. Ormai sganciata dal contesto nazionale sarebbe avviata verso una deriva senza ritorno. Ritiene che questa sia una lettura valida o, al contrario, ha intravisto segnali più incoraggianti?

«Una legge fisica e chimica dice che il mondo cambia lungo i bordi, sui confini. Con un’altra parola, non casuale: ai margini. Lì è la Calabria. E la storia (detto benissimo ne Il cigno nero di N. T. Taleb; o da Z. Bauman) insegna che il futuro emerge sempre dove e come nessuno lo aveva previsto. Tutti guardano alla Lega Nord, al Settentrione, per capire dove andrà il Paese; la sopresa potrebbe venire da Sud, e dal Sud che meno ti aspetti».


• Chi sarà il protagonista del cambiamento della Calabria e con quali mezzi questo dovrà essere perseguito?

«I fenomeni sociali sono sempre complessi. Ma se dovessi tentare una semplificazione: sono i giovani che scoprono il valore della propria terra, che non ne accettanno più la rappresentazione perdente, negativa, rassegnata. E, invece di andarsene, pensano di poterla rendere come la vorrebbero. Possono farcela».


• Che Calabria si aspetta di conoscere al Calabria Day?

«Questa che ho appena descritto. Ma ce ne sarà anche un’altra, che vorrebbe farne parte ma non ne ha il coraggio, non ha fiducia. E ci sarà, ben mimetizzata, la Calabria che nel meglio che cerca di nascere riconosce il suo nemico».


• Qual è, secondo il suo parere, il messaggio più importante che da questa manifestazione deve arrivare ai giovani calabresi?

«Uno solo: noi ci siamo e ci crediamo. E c’è posto per tutti, qui. Di tutti c’è bisogno».


• Lo potrebbe sintetizzare in uno slogan?

«Chi meno ha darà a tutti. Abbiamo cominciato».


Fonte: http://www.calabriaday.it/?page_id=725

martedì 5 aprile 2011

Il Fuoco del Sud


L’Italia disunita. In un libro di Lino Patruno l’impietosa analisi di un paese dilaniato da forti spinte centrifughe



di Romano Pitaro

Scriveva Giustino Fortunato: “Amico mio, adoperiamoci finché l’Italia vivi e perduri, perché soltanto due o tre secoli di unità possono, forse, redimere il Mezzogiorno”. In effetti 150 anni non sono bastati.

Per il Sud, anzi, scarnificato dall’Unità, sedotto e abbandonato, è stato un continuum di fallimenti. Al Nord un’area ricca e competitiva come la Baviera, al Sud l’area più depressa d’Europa che espelle giovani: a Milano nel 2009 sono giunti 15mila giovani siciliani e calabresi. Impietosa la Svimez: in undici anni, dal 1998 al 2008, 700mila persone sono emigrate dal Sud al Centro-Nord. Due Italie mai così lontane.

Mi immergo nel “Fuoco del Sud”, lo sferzante libro di Lino Patruno (Rubbettino editore) prendendo in prestito la cautela suggerita da un meridionalista unitarista come Fortunato. E sì, perché qualora sulle valutazioni razionali che inducono ad apprezzare – nonostante tutto – il valore dell’Unità, consapevoli che la storia non si fa con i se e che il Sud ha anche tanto da farsi perdonare (dal referendum istituzionale del ’46 quanto votò per la monarchia, alla scelta di classi dirigenti miopi o ‘ascare’) prevalessero le ragioni del cuore e ci lasciassimo
avvincere dalla travolgente prosa di Patruno, saggista ed editorialista della Gazzetta del Mezzogiorno dopo averla diretta per tredici anni, rischieremmo di canticchiare a nostra insaputa qualche strofa di quella scoppiettante canzone di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. Ed è fatta!

La Lega dei “duri e puri”, pur sedendo negli scranni di Roma ladrona ormai da un ventennio, non aspetta altro. Che, insomma, anche dal Sud finalmente tracimino i veleni mai evaporati contro l’annessione piemontese che lo mise a ferro e a fuoco. E inizi, anche il Sud, simmetricamente e con uguale intensità di cannoneggiamento, a professare la secessione, in vista di un addio all’Italia perennemente molesta nei suoi riguardi. E quindi a sfilare la tela dell’Unità che il grande preludio della rivoluzione giacobina del 1799, che issò la Repubblica napoletana poi capitolata nel sangue, ed i successivi moti insurrezionali, consegnarono all’Occidente dopo lo sbarco a Marsala. Ammonisce il ministro Brunetta: “Chi crede che liberarsi di un pezzo d’Italia sia utile a prendere velocità illude se stesso, o non sa far di conto”. Bene, ma ai poteri forti che muovono la Lega (industria, finanza, banche, giornali, associazioni di categoria, sindacati, partiti e università) in questa congiuntura critica, finita la Grande Abbuffata, fa comodo enfatizzare un Sud perduto, tutto “monnezza, spreco e criminalità”.

Il nuovo lavoro di Patruno ( l’ultimo è “Alla riscossa terroni”) che giunge non casualmente dopo l’euforia del 17 marzo, in effetti ha l’aria di essere, piuttosto che l’ennesimo pamphlet sui torti subiti dal Sud con corredo di citazioni e sussidi bibliografici, l’agile “libretto rosso” messo a disposizione della galassia di sigle, in verità solo in parte inneggianti al trono e all’altare. Associazioni, intellettuali e fondazioni, case editrici, periodici e siti web appollaiati sul Mezzogiorno stanco e in procinto di lanciare un piano di riscossa che dovrebbe inquietare le autorità costituite. Benché tuttora, e neppure dopo il prezioso ed inedito scavo di Patruno nella miniera “neoborbonica”, aldilà delle arcinote recriminazioni segnalate persino da Bolton King e Thomas Okey nel 1904 in un libro intitolato “L’Italia d’oggi” prefato da Benedetto Croce (“Il Mezzogiorno può provare che dall’Unità ha tratto più profitto il Settentrione sia finanziariamente sia economicamente; che è gravato al di sopra della proporzione della sua ricchezza; che lo Stato spende lire 50 per ogniabitante nel Piemonte, nella Liguria e nel Lazio, mentre spende meno di lire 15 negli Abbruzzi, nella Basilicata e nelle Calabrie; che la gran massa della moneta pubblica, erogate in ferrovie, porti ed irrigazioni, ha preso la via del Settentrione e del Centro”) sia dato capire qual è, se c’è, il disegno.

Va bene l’indignazione, ma dopo? Nel denso capitolo “Alla caccia del che fare” i suggerimenti traboccano. Di tutto e di più. Si va da chi asserisce che “il Nord ha esaurito la sua spinta propulsiva e costruire sul costruito gli causa solo forti inefficienze economiche che si scaricano sul resto del Paese sotto forma di aumento incontrollato di spesa pubblica” a chi ritiene che “Investire nel Sud è l’unica possibilità di salvare il sistema dal fallimento generale”; c’è chi è dell’avviso che “Il Sud deve arrabbiarsi di più” e chi auspica che “Il Sud esca dalla gabbia liberale”; c’è chi è convinto che “il blocco sociale su cui puntare è la nostra grande emigrazione” e chi asserisce che “bisogna cancellare la questione meridionale con una riforma costituzionale”; altri credono che “bisogna costituirsi in maxiregione autonoma o in Stato indipendente federato con gli stessi confini del Regno delle Due Sicilie” e che “Serve una rivoluzione dal basso, una nuova classe dirigente capace di traghettare il Sud dall’era nell’era post industriale”; c’è chi lo vuole “identitario” il Meridionalismo e chi rilancia le teoria economiche di Nicola Zitara per il Sud “Stato indipendente”: servono banche, impegno contro la mafia e libertà di amministrare le proprie risorse. Resta, però, il fatto che le diverse sigle non riescono mai a parlare con una voce sola. Stanno nelle retrovie. Impotenti. Non incidono in alcun modo nelle decisioni politiche. I tentativi di aggregarsi, tanti negli ultimi vent’anni, sono andati a vuoto. Senza dire del ghigno che offrono a chi fonda partiti per il Sud dall’alto (Lombardo, Poli Bortone), perché coriaceo è il sospetto sia per la forma partito che per “le sirene partitocratiche”.

Genericità e frammentazione, da un lato. Ma dall’altro, scrive Patruno, i movimenti sono “impegnati a lavorare sul futuro, battendosi per liberare il Sud dalla sudditanza subita” e, confidando sulla “Rete”, per divulgare, come mai era accaduto, “il ritrovato orgoglio meridionale e il rifiuto di un Sud di nuovo allo stremo”.

E’ la parte più intrigante del libro, quella che porta in superficie nomi e volti dei nostri giorni di tutte le regioni meridionali, le cui opinioni spesso liquidate dalla pubblicistica con l’aggettivo sprezzante di neoborbonico, sembrano voci nel deserto. Opinioni che non hanno mai smesso di contrastare le “logiche colonizzatrici”; di chiedere perché Napoli, la più grande metropoli d’Italia prima dell’Unità, “la terza in Europa dopo Londra e Parigi con oltre 400mila abitanti”, sia stata di punto in bianco “ridotta a prefettura sabauda”; perché – lo documenta l’economista Vittorio Daniele, docente all’Università Magna Grecia di Catanzaro – il divario Nord/Sud inesistente durante il Regno delle Due Sicilie, cresce a dismisura con l’avvio della modernizzazione del Paese; perché il Sud fu espropriato delle sue banche (Banco di Napoli e di Sicilia) e vennero smantellate la più grande industria metalmeccanica del momento a Pietrarsa, dove lavoravano 1050 operai (l’Ansaldo di Genova occupava 480 operai), e il complesso siderurgico di Mongiana che diede il ferro per la realizzazione del primo ponte sospeso di 76 metri sul Garigliano; perché fu introdotta una fiscalità feroce che con la tariffa doganale piemontese e la tassa sul macinato svuotarono il Sud e aprirono le porte alla soluzione finale: la grande emigrazione meridionale, che vide scappare dal Sud tra il 1887 ed il 1914 sei milioni di persone.
Gettano fasci di luce le opinioni di questi “nuovi briganti” su tante bugie risorgimentali sparse a pieni mani nel dibattito pubblico. Commenta Patruno: “Al Sud servirebbero di nuovo i briganti, agguerrite bande a mano armata di megafono e non di moschetto, dell’ardimento della parola più che della proditorietà del gesto, briganti della comunicazione che stimolino le coscienze, suscitino la ripulsa soprattutto in un’Italia unita mai così disunita”. Oltre le pubblicazioni e la convegnistica, dinanzi alle sempre più laceranti emergenze sociali, Patruno intuisce che nella pancia del Sud c’è un sommovimento che non ha udienza nelle Istituzioni e cova rivalse, anche se non minacciano rivoluzioni né progettano tumulti. Non ha cittadinanza nei media nazionali torturati dalla cronaca politica ed è a questa galassia che si rivolge. Spiega: “Il ‘Fuoco del Sud’ sempre ignorato, macina con la inquietudine sotterranea di un vulcano mai spento, un’energia soffocata, la rabbia repressa di un torto subito. E proprio la convinzione dell’ingiustizia di una storia dell’Unità scritta ancora una volta dalla parte dei vincitori e mai dei vinti è la scintilla che attraversa un Sud sommerso e ribollente per quanto a lungo silente, frustrato, diviso, scoraggiato”. Il libro mira, in apparenza almeno, a inserirsi nel lungo filone del recupero della memoria, ma è chiaro che è frutto, anch’esso, delle recriminazioni in cui s’immerge e su cui getta benzina. Fin dal titolo, infatti, “Fuoco del Sud”, amplifica le doglianze, violenze patite, gli eccidi, stupri e le rapine di ieri. E con il contributo di economisti ribalta luoghi comuni che oggi vorrebbero il Sud parassita e immobile. Offre, mentre s’imbatte nella rabbia espressa nel web di un movimento che ha radici nel Sud e in quell’altro Sud che è il Nord zeppo di meridionali, parole d’ordine e chiavi di lettura a chi l’animosità verso l’annessione non l’ha mai deposta. Il libro tende a diventare il vademecum di un movimento che, dal 1861 fino ai nostri giorni, non ha mai smesso di ricordare la pagina vergognosa del primo genocidio e della prima pulizia etnica della nostra storia comune (Nino Bixio sosteneva che “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare, mandarli in Africa a farsi civili”) con l’uccisione di migliaia e migliaia di contadini definiti briganti, e che oggi denuncia non l’acrimonia tra centrodestra e centrosinistra, ma la guerra ininterrotta tra Nord e Sud. Quel Nord che ha fatto del Sud “un paradiso abitato da diavoli”.

Occorre però stare attenti, se si vuol evitare di sfondare l’Italia repubblicana figlia di più vicende, di due guerre mondiali, della resistenza, della Costituzione e del “sogno europeo” che nel mondo disorientato è un punto da cui ricominciare. Non dobbiamo dimenticare che 150 anni sono pochi, per permettere ad un Paese di fronteggiare spinte centrifughe di tale asprezza. Specie se all’irruenza politicamente potente della Lega si sommasse il “Fuoco del Sud”. E’ vero che anche la Francia (separatismo corso), la Spagna ( l’Eta e il separatismo della Catalogna) e l’Inghilterra (Ulster) hanno problemi interni, “ma – spiega Romano Bracalini nel suo “Brandelli d’Italia” edito anch’esso da Rubbettino – i tre Stati possono vantare una storia unitaria quasi millenaria e nessuno minaccia la loro stabilità. Mentre l’Italia, non avendo risolto i problemi che mettono tuttora a repentaglio la sua unità nazionale, è più simile alla Cecoslovacchia e al Belgio”. E sappiamo cos’è successo da quelle parti.

da Il Quotidiano – domenica 3 aprile

Fonte:Onda del Sud