venerdì 27 agosto 2010

La Mafia che al nord "NON" esiste


La mafia che al nord (non) esiste
Alcune precisazioni storiche su storiche menzogne

di: Germano Milite

"Qui a Milano la mafia non esiste". A dirlo non è stato un ottuagenario un po' brillo appena uscito dal bar dello sport ma il sindaco del capoluogo lombardo Letizia Moratti. Sulla stessa linea di pensiero, come stranoto, si trovano a viaggiare a metà tra reale ignoranza ed imperdonabile ipocrisia mistificatrice centinaia di autoerevoli esponenti del Pdl ed in particolare della Lega Nord.
Nella nostra penisola, per ragioni fin troppo facili da intuire, si continua anche nel 2010 a ripetere questa sciagurata, odiosa e negazionista litania che recita, in un disperato quanto grottesco e patetico tentantivo di mantrico autoconvincimento, che la malavita organizzata è un problema ed un "vizio" esclusivamente meridionale; nato, cresciuto e confinato all'interno di quei territori ingrati, lontani e oziosi che si stravaccano, pigri ed accaldati, a sud di Roma.
Per carità, che un lavorantore brianzolo che tira picconate o monta motori per 13 ore al giorno da quando aveva 12 anni creda ancora in questa favola della mafia terrona ci può anche stare ma, che il sindaco di Milano e tanti altri esponenti di spicco dell'esecutivo si ostinino a non voler vedere un legame indissolubile che esiste, in maniera sul serio radicata ed inconfutabile fin dagli anni 80, rappresenta motivo di vergogna e delegittimazione per l'intera classe dirigente.
Senza voler scomodare Michele Sindona e Roberto Calvi (le cui biografie invitiamo comunque a leggere con attenzione e curiositò) e la tristemente nota Banca Rasini situata nel pieno centro di Milano (via dei Mercanti), ci basta difatti citare un esempio particolarmente significativo per comprendere quanto, parlare oggi di Nord e Sud del paese dividendo la mala geograficamente, sia incredibilmente fuorviante e sinonimo di cialtroneria imbarazzante o di imperdonabile mala fede.
E' la fine del non troppo lontano 1986 quando, i picciotti siciliani, decidono che è arrivato il momento di stringere un altro patto di sangue (in tutti i sensi) con gli imprenditori del centro- nord. In particolare, con il beneplacito di Salvatore Riina, la famiglia Buscemi di Palermo (composta da membri di Cosa Nostra) entra in società con il gruppo ravennate Ferruzzi-Gardini della Calcestruzzi. La potente famiglia di Ravenna, che conSerafino Ferruzzi ha messo in piedi un impero da multinazionale negli anni precedenti, sfidando con la distrubuzione e la produzione di grano anche gli americani, è la numero uno in Italia proprio per il tanto agognato calcestruzzo.
E' un'azienda solida ed in crescita che sembrava aver trovato in Raul Gardini (succeduto al defunto Ferruzzi) un dirigente giovane, dinamico e lungimirante.
E così, la Calcestruzzi, ha modo di aggiudicarsi il monopolio del fiorente mercato edilizio (per lo più abusivo) di Sicilia, Campania e Calabria. Un mercato finanziato con diluvi incessanti di fondi pubblici che concede a Gardini, tra le varie zone calde, la collina abusiva di Palermo della famiglia di Michele Greco.
Un giro d'affari enorme che fonde in un unico impasto marcio la migliore imprenditoria nordica con la più feroce e spregiudicata malavita meridionale. Un connubio da 26 miliardi di lire (dell'epoca) di capitale capace di aumentare del 20% il valore iniziale in un solo anno di attività. In altre parole, un'azienda del Nord, riceve appalti e finanziamenti pubblici (pagati dai contribuenti di tutto il paese) per costruire case al Sud e piazza, ai vertici dei diversi consigli d'amministrazione delle cave e delle filiali sparse per la Sicilia, membri di Cosa Nostra.
Ma il patto scellerato e miliardario con la mala si rivela ben presto disastroso per Gardini che, qualche anno dopo, si toglierà la vita; forse (non lo sapremo mai con certezza) proprio a causa del patto con la mala.
Ricatti alla famiglia Ferruzzi-Gardini, lavori malfatti e leggi anti-aziendali imposte nei territori del sud sfalderano in breve tempo il gruppo; erodendo risorse economiche e dando una lezione importante anche ai grandi manager del settentrione: la mafia non concede a nessuno la possibilità di salvarsi. Chi stringe un patto con i suoi membri, rischia la vita fin dalla prima firma e deve sottostare ad ogni capriccio, ad ogni carognata, ad ogni minaccia e ad ogni scelta imposta dagli uomini d'onore.
Quello della Calcestruzzi è un esempio tra i tantissimi che, in maniera lampante, palesa il non senso e la miopia dei discorsi a metà tra il demagogico ed il populista di chi aizza le folle ignoranti del nord contro quelle povere (ed altrettanto poco erudite) del sud in una lotta tra straccioni al termine della quale trionfano solo ricconi e mafiosi. Che motivo c'è, quindi, di fare ancora una differenziazione nord virtuoso e trainante e sud arretrato, arraffone, malavitoso ed inefficiente. I fondi pubblici tanto contestati dalla Lega nord hanno e continuano a finanziare anche i gruppi industriali del settentrione; creando mostri bifronte che investono da Roma in su e deturpano, uccidono e distruggono nel meridione.
Eppure, per scoprire l'intollerabile superficialità di certi discorsi para-politici, basterebbe sforzarsi di leggere qualche libro di storia ben scritto.
La cultura è l'unica arma di salvezza e, per potenti e malavitosi, è molto più pericolosa di una pistola puntata alla tempia.

Fonte:Julianews

lunedì 2 agosto 2010

Ma così si uccide la pecora del Sud !!


di Lino Patruno

Per il ministro Tremonti è molto semplice. Se i Comuni del Sud non ce la fanno, aumentino le tasse. Ma a furia di tosarla, la pecora muore. Già oggi che non c’è ancora il federalismo fiscale del «ciascuno si tiene i suoi soldi e fa da sé», le tasse locali al Sud sono aumentate più che al Nord. Venti per cento. Complice soprattutto l’Ici, la tassa sulla casa, la cui abolizione ha inguaiato i sindaci sudisti. Come pure il «patto di stabilità», spese proibite anche se la cassa te lo consente.
Il Nord l’ha risolta spendendo meno per gli investimenti, cioè le spese eccezionali, non quelle per far andare avanti la baracca, a cominciare dalla spesa sociale per chi ha più bisogno. Il Sud, per non lasciare in mezzo a una strada chi non arriva alla fine del mese, ha invece dovuto alzare le tasse e le tariffe. E partendo da redditi meno sostanziosi di quelli del Nord, quindi danno maggiore ed entrate minori.
Figuriamoci col federalismo. Quando cioè, ammettono anche i meno teneri verso il Sud, arrivando meno soldi dallo Stato il rischio di un’esplosione delle tasse locali non sarà solo un rischio. Dice: allora il Sud dovrà imparare a spendere meno, ad avere più responsabilità perché la pacchia è finita. E se gli amministratori non l’avranno, gli elettori li manderanno a casa. Tutto perfetto. Come dire a un padre di famiglia con due figli a carico e mille euro al mese, se spendi bene ti vai a fare pure le vacanze ai Caraibi. Quello magari esce di testa e fa un casino, eppure sembrava una persona per bene.
E poi, è vero, di sindaci e presidenti sciagurati al Sud ne abbiamo avuti e ne abbiamo, basta andare a vedere consulenze, feste e gemellaggi vari. Per non parlare dei banditi della sanità. I critici, anche meridionali, hanno ragione. Ma al Sud c’è meno lavoro, più gente che non riesce a pagarsi il medico, una famiglia su tre è povera, in vent’anni ne sono emigrati due milioni e mezzo, soprattutto giovani. Ed è un po’ più complicato ogni giorno dover mettere pezze di qua e di là, sentire gridare sotto il Comune «come dobbiamo fare». Fino al punto che rischiano di essere eroi, non cacciati ma rieletti, proprio i sindaci e i presidenti più sciagurati, quelli che più spendono e più tassano. E poi si vede.
Ma la smettano i professorini della Lega Nord di pontificare che quando ogni Regione sarà responsabile a casa propria, anche il Sud andrà meglio. Biascicato dall’alto di un reddito di circa il 40 per cento in più: i contadini dicevano che il ricco non capirà mai il povero. E la smetta il presidente Formigoni di ripetere una cosa vera, che oggi ogni lombardo passa alle altre Regioni 368 euro all’anno e si è stancato, specie se poi si sprecano e il Sud resta sempre Sud. Perché Formigoni, cui non dovrebbero mancare carità cristiana e correttezza, dovrebbe aggiungere che quei 368 euro gli ritornano, e con gli interessi, come spesa dello Stato, cioè con soldi anche meridionali.
È stato il recente rapporto Svimez (Associazione sviluppo Mezzogiorno) a far sapere che, dal 2001 al 2009, la spesa dello Stato al Sud è scesa dal 41 al 34 per cento. E tutti sanno che non ha mai raggiunto quel 45 per cento fissato da vari governi, e non per fare rivoluzioni ma per fare giustizia al Sud. E tutti sanno, fingendo di non saperlo, quanto il Nord ricava dal Sud come mercato dei suoi prodotti, come incentivi per le sue imprese, come commesse di lavori pubblici. Incassando al Nord le tasse anche per le attività svolte al Sud.
Tutti sanno quanto il Nord incassa come valore dei laureati meridionali che vi salgono: 18 mila nel 2009. Non solo classe dirigente (rieccola) che il Sud perde, ma anche danno economico colossale: se ogni laureato costa 100 mila euro (dati Ocse), ogni anno il Sud regala al Nord un investimento di due miliardi di euro.
Anzi, a volersi amaramente divertire, calcolando che il 17 per cento almeno della popolazione del Nord è meridionale, e valutando gli uomini come si fa con gli animali da lavoro, il meridionalista Manlio Rossi-Doria stabilì che ogni emigrato sia costato a chi lo ha «allevato» da 5 a 8 milioni di vecchie lire. La moltiplicazione arriva a 20-30 mila miliardi di lire ceduti al Nord, il doppio di quanto lo Stato ha speso nel Mezzogiorno dal 1950 in poi. Per non calcolare quanto quegli emigrati siano stati la fortuna del Nord. Il «miracolo economico».
Siccome Tremonti ha anche i giorni buoni, ha poi detto che col federalismo fiscale «saremo prudenti, non abbiamo la minima intenzione di rischiare». Figuriamoci il Sud. E il presidente Napolitano ha aggiunto che ci vuole un «cambio di strategia» per lo sviluppo del Sud. Non politiche speciali quando la piazza ribolle, ma governi che vedano con onestà le cifre del Sud e dicano: le abbiamo anche volute noi, non è giusto lasciarle così, altro che ciascuno si tenga il suo. Se questo è meridionalismo piagnone, Bossi è un lord inglese. Improbabile.

Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno del 30/07/2010