martedì 3 marzo 2009

Esiste ancora la "questione meridionale" ?

Il Sud e la Sicilia verso la nuova frontiera mediterranea *

Di Agostino Spataro

Esiste ancora la questione meridionale?
Non è una boutade, ma una domanda pertinente che sollecita una verifica della realtà attuale di questa grande area poco sviluppata che comprende 8 regioni, suddivise in 28 province, che rappresentano il 75% delle acque territoriali, il 41% della superficie e il 35% della popolazione italiane.

Un territorio carico di storia e di cultura, ma segnato da acute contraddizioni sociali ed economiche che parevano insanabili per via ordinaria.
Tanto che, agli inizi degli anni ’50, la politica italiana decise di affidare il Sud alle cure di un ministero ad hoc istituito e agli interventi operativi speciali della Cassa per il Mezzogiorno (Casmez).

Da allora ad oggi qualcosa è cambiato in meglio, tuttavia la questione meridionale resta come palla al piede dell’Italia. Se non altro perchè è rimasto immutato il divario col Nord.

Recenti dati Istat ci dicono che l’apporto del Sud alla formazione del PIL italiano è stato nel 2007 del 23,8% mentre nel 1979 era del 24,0%.
Addirittura una leggera flessione che segnala il permanere di una difficoltà di fondo che acuisce il disagio sociale e scoraggia gli investimenti italiani e soprattutto stranieri.

Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2006, solo lo 0,66% degli investimenti diretti esteri sono stati allocati nel Sud mentre il 99,34% si é orientato verso il centro nord.

All’interno del dato globale di segno negativo, si registrano significativi progressi a macchia di leopardo, concentrati specialmente nelle 4 regioni più piccole che stanno “fuoriuscendo” dal Mezzogiorno.

La svolta riguarda Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna che, nel 2007, hanno fatto registrare un Pil pro-capite superiore alla media meridionale attestatasi su 17.552 euro.

I fattori di tale performance sono molteplici: innovazione, prossimità con i mercati, efficienza dell’infrastrutture e dei servizi, ecc. Tuttavia, il fattore più influente, e unificante, sembra essere l’assenza del predominio mafioso sui loro territori.
L’esatto contrario di quanto si verifica nelle rimanenti regioni Calabria, Sicilia, Campania e Puglia, tutte al di sotto della media del Pil, segnate da una soffocante presenza della criminalità organizzata (rispettivamente: Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) che condiziona l’economia, l’amministrazione e, in una certa misura, la società civile.

Un Mezzogiorno dentro il Mezzogiorno
Una vistosa divaricazione interna che ha creato un mezzogiorno dentro il mezzogiorno.

In Calabria, Sicilia e Campania non c’è un vero mercato, non c’è libera concorrenza, ma prevalgono forme di produzione e di accumulazione pre- moderne, basate sulla violenza e sull’illegalità, che consentono alle mafie di produrre un “fatturato” stimato (forse per difetto) in 130 miliardi di euro, corrispondente al 40% del Pil meridionale e al 10% di quello italiano.
Un’incidenza davvero ragguardevole, ben oltre i limiti fisiologici tollerabili, maggiore di quella derivata dal fatturato di alcuni grandi gruppi industriali italiani.
Un fiume di denaro che, oltre a sfuggire in gran parte al fisco, fa della criminalità uno dei soggetti principali dello scenario economico e finanziario del Paese, con articolazioni importanti in diversi Stati europei, dell’est e dell’ovest.
A ben pensarci, senza questo 10% d’origine malavitoso forse l’Italia non potrebbe sedere nel club del G8. Molti, soprattutto all’estero, si chiedono: perchè lo Stato democratico, i diversi governi succedutisi non hanno mai intrapreso una lotta seria, definitiva contro le organizzazioni criminali?

Il pensiero corre ai voti che le mafie convogliano sui partiti di governo. Ma il voto, da solo, non basta a spiegare un fenomeno così potente e radicato.
In realtà, la motivazione principale credo stia in questi enormi flussi di capitali che, per vari canali, anche leciti, affluiscono nel sistema economico e nel circuito finanziario nazionale ed internazionale.

Insomma, senza questo apporto, ormai consolidato, verrebbe a mancare un pilastro finanziario importante, difficilmente sostituibile con risorse lecite.

Immigrazione e federalismo egoistico
Ma torniamo al Meridione dove al permanere di dinamiche così perverse si registra l’attivazione di alcune più virtuose che hanno favorito l’emancipazione economica di talune regioni.

Tutto ciò è successo nel corso degli ultimi tre lustri (1992-2007), ovvero durante la lunga e confusa (e non conclusa) fase della transizione politica italiana, apertasi con l’esplosione di “tangentopoli” (1992) che ha travolto il sistema politico della ”prima Repubblica” e capovolto i termini del tradizionale rapporto nord-sud.
Nel senso che, anche grazie alle pressioni ricattatorie della Lega di Bossi, nell’agenda politica e di governo non figura più la “questione meridionale”, ma quella “settentrionale”, accompagnata dalla rivendicazione di un “federalismo fiscale” caricato di un significato punitivo verso il sud “sprecone”.

Il progetto di riforma federalista, già varato dal governo Berlusconi, se attuato rischia di perpetuare, di acutizzare il divario fra nord e sud e quindi d’innescare una contrapposizione fra regioni ricche del centro nord e regioni meno sviluppate del sud che potrebbe disarticolare l’autorità dello Stato e l’unità della nazione.
Si creerebbe, così, il clima perfetto per consentire alla Lega di far passare la sua idea costitutiva di secessione del nord, mai veramente abbandonata.
Un progetto subdolo, disastroso per l’Italia e per l’Europa, che non si nutre soltanto dell’egoismo razzista di taluni gruppi improvvisamente arricchitisi, ma che fa leva su alcuni fenomeni sociali nuovi che stanno modificando il tradizionale rapporto fra nord e sud del Paese.

Fra questi, grande importanza assume l’immigrazione extracomunitaria. L’afflusso, piuttosto recente, nelle regioni del centro-nord di milioni d’immigrati ha fatto venir meno uno dei presupposti del “patto scellerato” sul quale si è fondato, dall’Unità in poi (1860), il difficile equilibrio fra nord e sud. Com’è noto, quel “patto”, mai ufficialmente ammesso, assegnava al Sud una doppia funzione subalterna verso l’industria del nord: di fornitore di braccia e cervelli e di grande mercato di consumo.

Oggi, il nord, giunto ad uno stadio di saturazione del suo sviluppo e in forte competizione con altre realtà industriali europee e mondiali, alle braccia meridionali preferisce quelle provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.
Meglio se clandestine poiché costano meno e non hanno diritti da rivendicare.
Tuttavia, il Nord non può fare a meno del Mezzogiorno che resta pur sempre un importante mercato (circa 20 milioni di consumatori) e luogo strategico di deposito, trasformazione e distribuzione di prodotti energetici. Soltanto in Sicilia si raffina il 40 % delle benzine, mentre sulle sue coste approdano due giganteschi metanodotti provenienti dall’Algeria e dalla Libia.

Nei nuovi programmi, in corso di attuazione, è prevista, sempre in Sicilia, la realizzazione di due grandi impianti di ri- gassificazione e almeno di una centrale nucleare.

Insomma, il sud sempre di più acquisterà un peso decisivo nella strategia di approvvigionamento energetico del Paese.

Il Mezzogiorno ponte europeo nel Mediterraneo
Anche se la Casmez è stata abolita, l’intervento speciale nel Sud, seppure in misura ridotta, è continuato sotto altre forme. In particolare, utilizzando i vari progetti comunitari, purtroppo concepiti ed attuati in continuità col vecchio meccanismo e, pertanto, con risultati vicini allo zero.

Peccato! Poiché si è persa un’altra importante occasione per il Sud.
Infatti, oltre ad avere sprecato una gran quantità di denaro pubblico, si rischia di non cogliere le tante opportunità che si produrranno, nei prossimi anni, grazie allo sviluppo globale e multi polare nella zona mediterranea.

Il Mezzogiorno, fisicamente e storicamente proiettato nell’area mediterranea, potrebbe candidarsi a divenire zona-cerniera, ponte del partenariato e della zona di libero scambio euromediterranei.

Cambierebbe così il suo ruolo: da area emarginata a punta più avanzata dell’Italia e dell’Europa del dialogo e della cooperazione con i Paesi rivieraschi.
Inoltre, sappiamo che nel Mediterraneo, speriamo al più presto pacificato e politicamente co-gestito, si materializzerà, attraverso il canale di Suez, una fra le più sconvolgenti novità sul terreno dei rapporti economici, culturali e politici fra Europa e Asia.

Per il sud italiano, così come per altri sud europei, si apre, infatti, una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti flussi commerciali e finanziari provenienti dall’Asia e dall’Africa, in particolare, oggi, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania.

Una prospettiva che potrebbe consentire al Mediterraneo un “ritorno” al ruolo storicamente assolto fino al 1492.

(Fine Parte I)

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