Scritto da Antonio Fiamingo Francesco Mangialavori il 7, mar 2011 in Ambiente e Territorio
Se le case sono brutte…
«… si sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno sbagliato quasi tutto. É sorprendente come siano riusciti, in un tempo tutto sommato neanche tanto lungo, a rovinare bellissimi paesaggi con brutte costruzioni… per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze ancorché preponderanti si potrebbe combattere. Il guaio grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. É comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà… L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile… I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali». (da “La ricchezza della povertà” di Giuseppe Berto)
Difficile dirlo meglio, Giuseppe Berto aveva talento da vendere. Descrivere la mentalità calabrese contemporanea e allo stesso tempo sia le sue cause sia i suoi effetti è un esercizio intellettuale di non poco conto. A nostro modo di vedere, quello che Berto nel 1972 scriveva sulla civiltà contadina è oggi più attuale che mai perché “purtroppamente” ancora non compiuto nel suo disegno scellerato, guidato da una folta schiera di Cetto La Qualunque in rappresentanza popolare. E, forse ancor più grave, con l’approvazione di un “cettismo” generale latente nella popolazione calabrese. Sulla stessa linea dello scrittore di Mogliano Veneto, Laura Aprati racconta su strozzatecitutti.info che una volta un costruttore le disse: “quando arrivi in un territorio guarda le case, come sono costruite, cosa hanno intorno. Sono la fotografia economica e sociale della gente che lo vive”, e continua scrivendo che “basta entrare in alcuni paesi calabresi e vedere gli scheletri delle case, l’abusivismo dilagante, i teli di plastica alle finestre. Sono l’istantanea di una regione ferita nel suo profondo, nella dignità e nel fisico”.Abbiamo fatto un giro veloce in macchina per i paesini del “Giardino di Proserpina”, la parte della provincia di Vibo Valentia che dalla fine dell’altopiano del Monte Poro si affaccia lungo la Costa degli Dei, tra Pizzo a Nicotera. Volevamo documentare con delle fotografie l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di criterio estetico, paesaggistico, ambientale, cromatico, storico/architettonico, di conservazione dei beni culturali, nella costruzione degli edifici urbani. L’intenzione era mostrare ciò che Berto aveva descritto così bene. Inoltre volevamo verificare se nei loro piani regolatori gli amministratori locali avessero inserito dei regolamenti che vincolassero al rispetto di norme estetiche per la tutela del patrimonio paesaggistico o perlomeno al decoro urbano (dimensionamento, discipline del colore, vincoli in materia di restauro, valorizzazione dei centri storici, ecc.). Il nostro giro in macchina è stato talmente illuminante che bisognerà scrivere e soprattutto vedere e fotografare ancora molto altro. Anche perché si sa che le cose che abbiamo sotto gli occhi sono le più difficili da vedere, da notare, perché sono familiari, abituali, scontate, a cui siamo persino indifferenti… soprattutto quando rivelano nostre profonde lacune e sofferenze, così ben radicate e stagionate da apparire immutabili e inevitabili. Tuttavia, quello che ci differenzia dal pensiero dominante è l’impossibilità di credere che il marcio sia prestabilito, che il brutto sia immutabile e che questa nostra stramaledetta Calabria non si possa rivoluzionare in meglio. A noi sembra che i calabresi debbano fare uno sforzo culturale e smetterla di pensare che case gigantesche e mai finite siano in qualche modo la rivincita su una storia di miseria e disprezzo subìto. Noi pensiamo che bisogna tornare al “bello”, al “piccolo” e a quel genere di architettura che ci appartiene, che s’incastona alla perfezione nei nostri meravigliosi paesaggi collinari e marittimi, espressione di una tutt’altro che povera cultura del passato ricca invece di dignità e umile lavoro. Un passato, il nostro, che in realtà deve diventare presente nelle sue positività, in un contesto di valorizzazione di una Terra bisognosa di quell’attenzione che merita anche solo per la sua intrinseca bellezza che ci ha donato. D’altro canto è ormai necessario che le amministrazioni locali si facciano promotrici e guide in questo percorso di rinascita architettonico-urbanistica predisponendo regolamenti vincolanti che migliorino il volto dei nostri paesi. Solo in questo modo, il fascino di molte aree interne oggi ancora poco conosciute e considerate verrebbe alla luce, e vivrebbe anche del turismo dovuto alla bellezza delle zone costiere calabresi, in una varietà paesaggistica forse unica nel panorama italiano. Da cosa nasce cosa. O no?
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