domenica 27 marzo 2011

Banca del Sud affare del Nord


di Lino Patruno


Per favore, fateci capire sulla Banca del Sud. Ci vogliono entrare le Banche popolari del Nord, e allora uno dice: finalmente si sono convinti che al Sud si può lavorare bene. Poi però si apprende che pretendono il 60 per cento: cioè appropriarsene.

Le Banche popolari del Nord sono quelle che curano gli interessi delle piccole e medie im­prese settentrionali. Atroce sospetto: la Banca del Sud cavallo di Troia per venire ancòra una volta a fare affari al Sud. Magari come 150 anni fa, quando vennero per “portare” la libertà e finirono per “portarsi” il territorio.

Ma a pensare male si fa peccato. Poi però si apprende inoltre che il candidato alla guida di questa Banca del Sud è Massimo Pon­zellini, presidente della Banca popolare di Mi­lano, città più vicina alle Alpi che al Me­diterraneo, anche se, udite udite, è la città che ospita la Conferenza sul Mediterraneo. De­vono aver scambiato l’acqua salata con la ne­ve. Merito principale di Ponzellini, oltre a tutto il suo curriculum vitae ecc. ecc., essere gradito a tal Umberto Bossi, che così si can­dida a mettersi alla testa anche del Mezzo­giorno. Bisogna però ammirare la coerenza storica. Anche la Cassa per il Mezzogiorno fu una Cassa per il Mezzogiorno ma fece tornare quasi tutti i soldi al Nord: Cassa per il Set­tentrione. Una partita di giro per l’acquisto di prodotti del Nord, per i lavori pubblici che le imprese del Nord vennero a eseguire al Sud, per gli incentivi che le medesime si presero al Sud senza che nessuno controllasse mai se i capannoni che innalzavano diventavano in­dustrie (si dovrebbe organizzare un viaggio nei cimiteri meridionali delle industrie mai nate).

Coerenza storica ma anche continuità sto­rica. Nei giorni scorsi, “La Stampa” di Torino ha avuto l’ammirevole onestà di riportare quanto ogni anno il Nord esporta al Sud: circa il 70 per cento della sua produzione. Se ci aggiungiamo i servizi (esempio la spesa delle Regioni meridionali per i ricoveri al Nord) e i costi dell’emigrazione (un laureato costa al Sud circa 100 mila euro e ne emigrano 80 mila all’anno), si arriva a 96 miliardi di euro che il Sud trasferisce ogni anno al Nord.

Dal Nord al Sud scendono invece 50 miliardi all’anno (il famoso “Sacco del Nord”). Anzi non scendono dal Nord al Sud, ma da chi è più

Ministro on. Umberto Bossi

ricco e paga più tasse (diciamo) a chi è meno ricco: scendono insomma anche da un lom­bardo benestante a un lombardo malestante. Principio di solidarietà alla base di tutti i moderni Stati democratici. Anche se fa dire al suddetto Bossi che il Sud vive a spese del Nord (titolo della “Padania” per la festa dell’unità: “Il Nord paga, il resto d’Italia festeggia”).

Il Sud si deve fare restituire 46 miliardi all’anno. Anzi di più. Perché non solo nel frattempo la spesa pubblica dello Stato con­tinua a essere maggiore al Nord (lo dice il ministero di Tremonti). Ma bisogna aggiun­gerci i 25 miliardi (almeno) di fondi Fas de­stinati appunto alle aree svantaggiate e finiti invece a coprire il taglio dell’Ici in tutt’Italia, la cassa integrazione soprattutto per le aziende del Nord, le multe ai lattivendoli padani che hanno prodotto più del pattuito fregando per primi i colleghi altrettanto padani. Ma per loro Bossi ha un debole.

Perciò crede ancora alla Befana chi teme che la Lega Nord voglia la secessione stac­candosi dal resto d’Italia. Saranno un po’ ru­stici ma non fessi. L’articolo uno del loro sta­tuto parla di “indipendenza” della Padania, cioè appunto di secessione. Ma non aggiunge se deve essere secessione statale o economica. E’ sufficiente quella economica. Cioè quella che si sta realizzando e sarà definitiva col federalismo: ciascuno si tiene il suo. Ma già il Nord, come abbiamo visto, si tiene quello del Sud. Il quale starà ancòra peggio perché, es­sendo più debole, non potrà che aumentare le tasse per dare almeno stessi asili e bus di ora.

E però la parola d’ordine è la solita: col federalismo il Sud starà meglio. Bisognerebbe sospettarne solo perché lo dicono Calderoli e compagni, notori malefattori del Sud. Il Sud dovrebbe stare meglio perché si dovrebbe go­vernare meglio. Detto da chi, col Paese terzo indebitato del mondo, continua ogni anno ad aumentare la spesa pubblica invece di dimi­nuirla.

Inutile aggiungerci contorni. Caro carbu­rante: le addizionali regionali penalizzano il Sud. Assicurazione obbligatoria auto: il 50 per cento in più di costo al Sud perché, teorizzano, più a rischio truffe (ma anche se uno non ha mai fatto incidenti paga di più rispetto a uno altrettanto “buono” del Nord). Ci sono troppi alpini meridionali, mandiamoli via. E gli insegnanti meridionali al Nord devono cedere il posto a quelli locali anche se questi sono so­mari e loro bravi. Infine viene il cantante Grignani a Bari e di fronte a un impianto audio difettoso che il suo stesso staff aveva controllato dice: siamo in Puglia non a Ber­gamo. Anzi Berghèm.

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 25 marzo 2011

www.linopatruno.com


Fonte:Onda del Sud

martedì 22 marzo 2011

Non lo sapevo !!


Benvenuto sul Sito Internet del Comune di Tarsia
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La costruzione, del Campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, ha avuto inizio nel maggio 1940 ed è stata eseguita dalla ditta Parrini di Roma; alla stessa è stata affidata successivamente la manutenzione di tutto il Campo.

Il Campo, a differenza degli altri Campi di Concentramento italiani fu costruito ad hoc, e, nell'aspetto esteriore ricordava chiaramente un lager nazista, fatto com'era da lunghi capannoni e posto nell'immediata vicinanza della linea ferroviaria Sibari-Cosenza.

È stato il più grande ed importante Campo di Concentramento fascista Italiano, con una presenza media di oltre 2000 persone ed una punta massima, raggiunta nell'estate 1943, di 2.700 persone.

Era costituito da 92 baracche su un territorio di circa mq. 160.000 circondato da un recinto di filo spinato, sorvegliato dall'esterno lungo il suo perimetro dalla Milizia Fascista (gente del luogo e dei paesi vicini), mentre all'interno era sorvegliato da un Commissariato di Pubblica Sicurezza alle cui dipendenze vi erano un gruppo di agenti ed un Maresciallo.

Il Campo sorgeva nella Valle del Fiume Crati, a circa 6 Km dal paese di TARSIA, in una zona malsana, malarica e paludosa, dove erano in corso lavori di bonifica. Durante il periodo di prigionia molti internati si ammalarono e morirono di malaria. Esso entrò ufficialmente in funzione il 20 Giugno 1940.

Tra la fine di giugno e luglio 1940, giunsero a Ferramonti, provenienti da varie città dell'Italia Centro-settentrionale, più di un centinaio di Ebrei, solo uomini. Giorno dopo giorno arrivarono centinaia di persone così da formare, all'interno del Campo, una varietà di culture, lingue e usanze, ma dando anche luogo a non poche difficoltà dovute all'eccessiva popolazione ed alle ristrettezze economiche.

Dall'autunno del 1941 gli internati di Ferramonti non furono più soltanto Ebrei, Dalla Jugoslavia occupata, cominciarono ad arrivare moltissimi internati ariani, uomini politici e semplici cittadini che avevano avuto contatti con i partigiani.



Nel novembre 1941 arrivarono a Ferramonti i primi nuclei di Cinesi, altri profughi fuggiti dai Campi di concentramento della Germania e della Polonia giunsero da Rodi, si trattava per lo più di Ungheresi imbarcatisi a Bratislava, il 16 Maggio 1940 sul "Pentcho".

Gli internati arrivarono a Ferramonti sempre ammanettati, accompagnati da Carabinieri, venivano fatti scendere alla stazione ferroviaria della vicina Mongrassano e da qui proseguivano a piedi per circa 6 Km. Alcune volte, venivano fatti scendere direttamente al Casello Ferroviario di Ferramonti, a pochi metri dall'ingresso del Campo.

Il primo Commissario di P.S., nominato dal Ministero degli Interni a dirigere il campo fu Paolo SALVATORE.

Il 10 Luglio la Direzione del campo, rese noto il regolamento disciplinare a cui dovevano attenersi gli internati, che, riportava quanto previsto dalla Circolare ministeriale n. 442/12267, emanata l'8 giugno 1940 ed avente ad oggetto la prescrizione per i campi di concentramento e le località di confino.

Sottoposti a 3 appelli giornalieri, gli internati non potevano uscire dalle baracche prima delle 7.00 e dopo le 21.00, o superare i limiti del Campo senza uno speciale lasciapassare. Non potevano occuparsi di politica, né leggere, senza autorizzazione, pubblicazioni estere e la corrispondenza. Pure proibiti erano la detenzione e l'uso di apparecchi fotografici e radiofoniche e di carte da gioco. Non era invece previsto l'obbligo di lavorare, chi non aveva altri redditi per il proprio mantenimento, riceveva un sussidio governativo.

Gli internati realizzarono ben presto una organizzazione interna a carattere democratico basato sull'elezione diretta di un delegato per ogni baracca. Essi si riunivano tutte le settimane in una sorta di Assemblea dei delegati delle baracche, che eleggeva al suo interno un rappresentante generale di tutti gli internati, il Capo dei Capi delle baracche. Il più prestigioso fu GIANNI MANN.

Il Direttore del campo riconosceva ufficiosamente l'esistenza degli organi di autogestione e si appoggiava volentieri ad essi per mantenere quella tranquillità necessaria specialmente con l'arrivo delle donne e dei bambini.

Con l'arrivo dei bambini sorsero nuovi problemi in ordine alle scarse capacità alimentari e all'istruzione. Un sostanziale aiuto venne dato dalla organizzazione di ISRAEL KALK.



Con il beneplacito del Ministero degli Interni e della direzione, l'ing. Kalk poté dare il suo sostegno materiale e morale in quei duri anni agli internati di Ferramonti.

Gestiti degli stessi internati funzionarono una scuola, un asilo, un ambulatorio medico e, inoltre, si svilupparono varie attività artistiche, culturali e religiose, sia ebraiche che cristiane.

Tra gli internati del Campo vi erano decine di medici, tre rabbini, illustri pittori e musicisti, numerosissimi insegnanti e studenti universitari. Ognuno cercava di svolgere varie attività. La scuola del campo, fondata nell'autunno del 1940 da ERICH WITTENBERG (profugo dalla Cecoslovacchia, che fu il primo direttore) si arricchì di nuovi corsi e fu affiancata da un asilo per i più piccoli. All'interno del Campo vennero aperte anche 3 Sinagoghe.
Il 22 Maggio 1941, il Campo di Ferramonti, veniva visitato dal Nunzio Apostolico presso il governo italiano, Monsignor Francesco BORGONCINI-DUCA.

In occasione della visita del Nunzio Apostolico, gli ebrei chiesero di avere a Ferramonti una continua assistenza spirituale. Due mesi dopo fu inviato nel Campo il Cappuccino sessantacinquenne Padre Calisto LOPINOT, che presto riuscì ad accattivarsi la stima anche degli internati non Cattolici.

Visitò più volte il Campo di Ferramonti il Rabbino Capo di Genova dottor Riccardo PACIFICI, il quale celebrò solenni cerimonie nel Campo. Frequenti le manifestazioni artistiche e dibattiti culturali a Ferramonti: la vita culturale fu particolarmente intensa se non altro perché al suo interno si trovarono riuniti molti artisti di talento, vennero organizzati spettacoli teatrali, mostre di arte, corsi per adulti, conferenze.
La vita musicale era curata dal Maestro LAV MIRSKI, che prima della guerra era stato direttore d'orchestra all'Opera di OSIJEK (Jugoslavia). Anche lo sport ebbe grande impulso e in esso primeggiò il calcio, molto seguiti erano i tornei di scacchi .



I numerosi medici internati, spesso, alla fine della guerra furono autorizzati a curare anche persone dei paesi vicini. Uno di essi, dopo la liberazione, si trasferì proprio nel paese di Tarsia, dove rimase per circa 1 anno; un altro impiantò lo studio a Castrovillari, una cittadina a circa 30 Km. da Tarsia.

Nel 1943 fin dal primo mese avvennero numerosi episodi che mutarono le condizioni all'interno del Campo. Il 22 Giugno 1943 il direttore del Campo Paolo SALVATORE, venne trasferito, fu sostituito nel ruolo da Mario FRATICELLI.

Nell'estate 1943 la malnutrizione e la fame erano ormai una consuetudine a Ferramonti. Giungevano nel Campo una nuova categoria di internati, gli antifascisti italiani trasferiti da altri luoghi di detenzione.

Il 25 luglio 1943, un telegramma del Sottosegretario di Stato, diretto al Capo della Polizia chiedeva il trasferimento degli internati di Ferramonti di Tarsia nella Provincia di Bolzano ad un tiro di schioppo dalla fortezza tedesca. Ma quel giorno la storia avrebbe riservato altri avvenimenti: MUSSOLINI venne deposto e gli internati, temporaneamente, furono salvi.



Il 14 Settembre del 1943, verso le otto del mattino, sulla strada di Ferramonti apparivano i carri dell'VIII Armata Britannica. La Liberazione di Ferramonti avvenne in modo del tutto imprevisto.

La maggior parte degli internati, anche dopo l'arrivo degli alleati, non sapendo esattamente dove andare e cosa fare rimase a Ferramonti o si trasferì nella vicina Cosenza. L'abbandono del Campo si è avuto solo alla fine della seconda guerra Mondiale con la liberazione di tutta l'Europa dal giogo nazi-fascista.

Successivamente all'abbandono completo, da parte degli internati, le baracche che erano ben tenute non vennero in alcun modo vigilate e così iniziarono veri e propri saccheggi che vennero completati alla fine degli anni ‘60 dai lavori autostradali (A3 SA/RC) che ha diviso e sventrato in due tronconi le baracche esistenti.



Oggi poco è rimasto: le uniche baracche sono quelle che, durante il funzionamento del Campo, erano state utilizzate dalla Direzione e dagli uffici dell'Amministrazione del Campo, grazie alla cura dei coniugi PETRONI, dipendenti della Ditta PARRINI, che vi dimorarono fino alla loro morte (primi anni '90).

Del Campo di Concentramento nessuno parlò fino alla metà degli anni ‘70. Il Prof. Franco FOLINO, professore di lettere della vicina Roggiano Gravina, alla luce dei racconti di cittadini che hanno vissuto personalmente quegli anni, ha voluto approfondire questi racconti regalando così il suo primo libro su Ferramonti.

Ma solo alla fine degli anni 80, le istituzioni cominciarono a rendersi veramente conto ed a conoscere di nuovo Ferramonti ex Campo di Concentramento.

Così negli anni ‘90 l'Amministrazione Comunale di Tarsia, ha iniziato a mettere in atto iniziative concrete tese a valorizzare il " patrimonio "Ferramonti, così si è resa protagonista di atti formali, quale appunto far sottoporre, in data 30/08/1999, l'area a vincolo da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e procedendo alla recinzione di tutto il terreno.

Avendo registrato grande interesse, soprattutto da parte delle scuole, e vista la poca sensibilità da parte delle istituzioni sovra-comunali, L'Amministrazione Comunale di Tarsia, in collaborazione con il Comitato PRO-FERRAMONTI, oggi Fondazione " Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia ", ha voluto dare un segnale forte realizzando all'interno di una baracca, il Museo della Memoria, che, ripercorre, con documenti e fotografie, gli anni in cui il Campo di Ferramonti è rimasto attivo. Il tutto è stato interamente realizzato con finanziamenti Comunali.





Il Museo è stato inaugurato il 25 Aprile 2004 ed è gestito dalla " Fondazione Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia ", di nuova costituzione.





BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

• F. Folino: " Ferramonti un lager di Mussolini ", Editore Brenner, Cosenza 1985;

• C. S. Capogreco: " Ferramonti, la vita e gli uomini del più grande campo di concentramento fascista (1940-1945) ", Giustina, Firenze 1987;

• F. Folino: " Ebrei destinazione Calabria (1940-1943) ", Editore Sellerio, Palermo 1988;

• F. Folino: " Ferramonti? Un misfatto senza sconti ", Editore Brenner, Cosenza 2004.

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lunedì 21 marzo 2011

L'Italia ha già perduto la sua campagna di Libia


Di Daniela Scalea

Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.

Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”. Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).

L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).

Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”. Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni). Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili. La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.

La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione. Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.

Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.

Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni. La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%). La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli. La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia. La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico. I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem. Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese. Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora. Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.

Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.

La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci. Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).

L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.

L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio). Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio). Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo). Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.

È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore. Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia. L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia. Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.

Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943. Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.

Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte. Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (Roma 2010). È co-autore, assieme a Pietro Longo, d’un libro sulle rivolte arabe di prossima uscita.


Fonte:Eurasia

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lunedì 14 marzo 2011

Se le case sono brutte ...


Scritto da Antonio Fiamingo Francesco Mangialavori il 7, mar 2011 in Ambiente e Territorio
Se le case sono brutte…

«… si sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno sbagliato quasi tutto. É sorprendente come siano riusciti, in un tempo tutto sommato neanche tanto lungo, a rovinare bellissimi paesaggi con brutte costruzioni… per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze ancorché preponderanti si potrebbe combattere. Il guaio grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. É comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà… L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile… I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali». (da “La ricchezza della povertà” di Giuseppe Berto)

Difficile dirlo meglio, Giuseppe Berto aveva talento da vendere. Descrivere la mentalità calabrese contemporanea e allo stesso tempo sia le sue cause sia i suoi effetti è un esercizio intellettuale di non poco conto. A nostro modo di vedere, quello che Berto nel 1972 scriveva sulla civiltà contadina è oggi più attuale che mai perché “purtroppamente” ancora non compiuto nel suo disegno scellerato, guidato da una folta schiera di Cetto La Qualunque in rappresentanza popolare. E, forse ancor più grave, con l’approvazione di un “cettismo” generale latente nella popolazione calabrese. Sulla stessa linea dello scrittore di Mogliano Veneto, Laura Aprati racconta su strozzatecitutti.info che una volta un costruttore le disse: “quando arrivi in un territorio guarda le case, come sono costruite, cosa hanno intorno. Sono la fotografia economica e sociale della gente che lo vive”, e continua scrivendo che “basta entrare in alcuni paesi calabresi e vedere gli scheletri delle case, l’abusivismo dilagante, i teli di plastica alle finestre. Sono l’istantanea di una regione ferita nel suo profondo, nella dignità e nel fisico”.Abbiamo fatto un giro veloce in macchina per i paesini del “Giardino di Proserpina”, la parte della provincia di Vibo Valentia che dalla fine dell’altopiano del Monte Poro si affaccia lungo la Costa degli Dei, tra Pizzo a Nicotera. Volevamo documentare con delle fotografie l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di criterio estetico, paesaggistico, ambientale, cromatico, storico/architettonico, di conservazione dei beni culturali, nella costruzione degli edifici urbani. L’intenzione era mostrare ciò che Berto aveva descritto così bene. Inoltre volevamo verificare se nei loro piani regolatori gli amministratori locali avessero inserito dei regolamenti che vincolassero al rispetto di norme estetiche per la tutela del patrimonio paesaggistico o perlomeno al decoro urbano (dimensionamento, discipline del colore, vincoli in materia di restauro, valorizzazione dei centri storici, ecc.). Il nostro giro in macchina è stato talmente illuminante che bisognerà scrivere e soprattutto vedere e fotografare ancora molto altro. Anche perché si sa che le cose che abbiamo sotto gli occhi sono le più difficili da vedere, da notare, perché sono familiari, abituali, scontate, a cui siamo persino indifferenti… soprattutto quando rivelano nostre profonde lacune e sofferenze, così ben radicate e stagionate da apparire immutabili e inevitabili. Tuttavia, quello che ci differenzia dal pensiero dominante è l’impossibilità di credere che il marcio sia prestabilito, che il brutto sia immutabile e che questa nostra stramaledetta Calabria non si possa rivoluzionare in meglio. A noi sembra che i calabresi debbano fare uno sforzo culturale e smetterla di pensare che case gigantesche e mai finite siano in qualche modo la rivincita su una storia di miseria e disprezzo subìto. Noi pensiamo che bisogna tornare al “bello”, al “piccolo” e a quel genere di architettura che ci appartiene, che s’incastona alla perfezione nei nostri meravigliosi paesaggi collinari e marittimi, espressione di una tutt’altro che povera cultura del passato ricca invece di dignità e umile lavoro. Un passato, il nostro, che in realtà deve diventare presente nelle sue positività, in un contesto di valorizzazione di una Terra bisognosa di quell’attenzione che merita anche solo per la sua intrinseca bellezza che ci ha donato. D’altro canto è ormai necessario che le amministrazioni locali si facciano promotrici e guide in questo percorso di rinascita architettonico-urbanistica predisponendo regolamenti vincolanti che migliorino il volto dei nostri paesi. Solo in questo modo, il fascino di molte aree interne oggi ancora poco conosciute e considerate verrebbe alla luce, e vivrebbe anche del turismo dovuto alla bellezza delle zone costiere calabresi, in una varietà paesaggistica forse unica nel panorama italiano. Da cosa nasce cosa. O no?

mercoledì 9 marzo 2011

Scrivi Politica leggi Abuso !!


Tutti abbiamo un fratello che cerca un lavoro e non lo trova. Una cugina infermiera che vorrebbe essere trasferita da un ospedale all’altro. Un amico di famiglia che vorrebbe diventare capufficio. L’avvocato iscritto allo stesso club che vorrebbe qualche pratica legale di un ente importante. L’imprenditore che vorrebbe qualche appalto. Il condomino che vorrebbe la consulenza. Tutti sono convinti che ci vuole la chiave politica per ottenerlo, spetti o non spetti. Anzi sono un po’ rassegnati a non riuscirci, un po’ alla caccia del modo per riuscirci. Trovandosi spesso, se la chiave non è giusta, davanti al muro edificante della politica che risponde: noi non facciamo favori, noi siamo per la legalità, per noi vale il merito, noi siamo persone corrette. E per favore: noi non facciamo telefonate, né, vi prego, vorremmo riceverne.

IO DO A TE, TU DAI A ME - Sarebbe bello così. E magari qualche anima pia ci crede anche. Poi spuntano le intercettazioni di una qualsiasi delle ultime inchieste giudiziarie sulla politica e sulla pubblica amministrazione, e si capisce puntualmente tutto il contrario. Magari non reati. O reati che, se lo sono, saranno accertati dopo tanto di quel tempo che nessuno se ne ricorderà più. Ma comportamenti tali da far venire il disgusto per la politica, da far arrivare alla spiccia conclusione che è tutto uno schifo, la prossima volta non vado neanche a votare. Ora non vengano fuori i soliti professionisti del distinguo: sono casi isolati, nessuno si permetta di parlare di sistema. Non vengano fuori i soliti professionisti dell’accusa di qualunquismo per chiunque li scopre con le mani nella marmellata.

E’ un sistema. Perché stranamente compare ovunque si vada a togliere il coperchio. E che forse non viola la legge dei codici ma di sicuro viola la legge della morale. Anzi non della morale, che non frega più niente a nessuno, ma della decenza. Anzi non della decenza, che meno che mai frega niente a nessuno, ma della dignità, se riesce a smuovere ancòra qualcuno. Fare del proprio potere, anzi della propria funzione non un servizio alla comunità ma un servizio ai parenti, ai conoscenti, al compagno di partito, a chi ha dato i voti, a chi potrebbe darli. E tutto con soldi pubblici, cioè i soldi di tutti, compresi quelli che vorrebbero pulizia e ritrovano marciume. Il sistema è sistema perché c’è una perfetta contabilità del dare e dell’avere: io oggi chiedo e ottengo da te, tu domani chiedi e ottieni da me. Un circolo chiuso, una rete che diventa la normalità. Questa la scoperta più impressionante: la normalità del comportamento. Così diffuso da ritenere che nessuno si ponga il problema se sia giusto o no. Appena si è eletti o si entra in carica scatta il delirio di onnipotenza e di impunità. Il diritto ad abusarne. Ad arricchirsi. A fare il comodo proprio. A prendere tutto sùbito. A piazzare qui e là chi si vuole. A sollecitare la delibera. Ad accelerare la pratica. A spingere la decisione. A sensibilizzare chi non ci sta e potrebbe mettersi di traverso, fare il fanatico. A far girare di qui e lì sempre i soliti noti, il mestiere della politica per chi spesso non ha mai avuto un mestiere. E con la politica che si infila anche dove non c’entra un fico.

L’INCOMPETENZA AL POTERE - Così la politica ti nomina il primario ospedaliero senza capire un’acca di bisturi ma capendo molto di clientelismo. Così la politica ti nomina il presidente della municipalizzata che non capisce un’acca né di bus né di igiene urbana. Così la politica ti piazza nel consiglio di amministrazione senza che ne capisci un’acca di bilanci. Così la politica ti sistema nel consiglio direttivo della banca senza che ne capisci un’acca di conti correnti. Così la politica ti affibbia una protesi al ginocchio che ti farà camminare peggio. Non il diritto ma l’abuso, non la competenza ma l’incompetenza al potere. Con i risultati sotto gli occhi di tutti: disservizio, inefficienza, cattiva amministrazione, sprechi.

Questa politica sembra un grande ufficio di collocamento, un supermercato di qualifiche e di assunzioni, di promozioni e di incarichi, di assegnazioni di lavori e di attribuzioni di fondi. Un maxi-rigurgito di ingordigia. La politica del non ti preoccupare ci penso io, del faccio io un intervento, del dammi qualche giorno e risolviamo. Sarà lo sfogo di un cittadino di cattivo umore e che esagera. Ma è ciò che quel cittadino che non si arrende al peggio pensa leggendo, per esempio, del perenne scandalo della sanità in Puglia.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 5 Marzo 2011