martedì 15 novembre 2011

Prove di golpe tecnocratico

Ricevo e posto:


Di Lucio Garofalo

L’art. 1 della Costituzione italiana recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Parole sacrosante. Ma la sovranità popolare è di fatto negata o limitata da una sorta di assolutismo mediatico, una strisciante dittatura ideologica generata dalla televisione. Una tirannide che Pasolini aveva raccontato come il vero fascismo, cioè la peggior forma di oppressione totalitaria.

Il potere di persuasione occulta della televisione è immenso, subdolo e penetrante, è un dispositivo ideologico pervasivo e monopolizzante, funzionale ad un disegno di autoconservazione e rafforzamento dell’ordinamento vigente. Oggi, più che mai, si rivela in tutta la sua sconcertante verità un principio sacro al ministro della propaganda hitleriana, Joseph Goebbels, il quale sosteneva (non a torto) che una menzogna ripetuta ossessivamente, prima o poi viene recepita dalla gente come un dogma incontestabile.

In altri termini, non si inventa nulla di nuovo, ma si tratta di un fenomeno addirittura elementare e primitivo; tuttavia cambiano le soluzioni e le forme, le strategie e i mezzi tecnici, ritenuti più utili e convenienti, soprattutto adeguati all’attualità del momento.

Il sentimento immediato e primordiale su cui agisce e si impernia l’apparato ideologico della (dis)informazione televisiva, è la paura, ossia l’inquietudine suscitata negli animi di fronte ad una presunta “minaccia” (reale o immaginaria che sia, poco importa) descritta e agitata come uno spauracchio capace di influenzare e mobilitare le masse.

La paura è il fulcro istintivo ed emotivo su cui fa leva la macchina propagandistica della “strategia della tensione” ed è un formidabile strumento di controllo esercitato nei confronti dell’opinione pubblica. In passato si faceva ricorso al “nemico” individuato, in base alle circostanze e alle necessità, nel terrorismo di tipo interno (di matrice brigatista o di altra provenienza) ed esterno (come ad esempio al-Qaida o altre sigle internazionali), ovvero nel pericolo rappresentato da un’epidemia sconosciuta (si pensi all’Aids negli anni ’80, o altri morbi contagiosi, come in epoca medievale la peste nera) o altre infezioni di origine alimentare (cito i casi noti della mucca pazza e dell’aviaria).

Il meccanismo psicologico irrazionale innescato da chi detiene il potere, è una modalità di sorveglianza e di pressione sociale adatta a scatenare fenomeni di panico collettivo e isterismi di massa, creando ad arte un contesto di allarmismo diffuso che permette di giustificare interventi destabilizzanti e svolte politiche di segno autoritario e repressivo.

Oggi si preferisce impiegare le armi più sofisticate e “sublimi” della guerra finanziaria.

Mediante un bombardamento incessante e quotidiano, i mass-media agitano lo spettro terrificante dello “spread” o del “default”, in modo che l’opinione pubblica di una nazione sia messa nella condizione di accettare anche la soluzione più estrema e dolorosa. Si pensi al clima di “emergenza nazionale” provocato in modo puntuale da chi mira a legittimare e cavalcare “rivoluzioni” antidemocratiche che si inseriscono in un piano di ristrutturazione economica e ricomposizione del capitalismo su scala globale.

Si tratta di una piattaforma aggressiva e agguerrita, di impronta oltranzista ed eversiva, egemonizzata dalla borghesia imperialista ed imperniata sulla costruzione di un governo presieduto da un tecnocrate, che evidentemente fa comodo a quei centri di potere che invocano e perseguono misure drastiche e draconiane contro la crisi, per scaricare gli effetti più duri sui lavoratori e cancellare in un colpo solo le tutele sociali e i diritti sindacali conseguiti dal movimento operaio attraverso decenni di lotte tenaci e costanti.

Con l’incarico conferito dal Quirinale al professor Mario Monti, un tecnocrate promosso senatore a vita, si è insediato un governo ultraconservatore appoggiato e sponsorizzato dalle principali forze parlamentari di destra e di “sinistra”, che formano un fronte compatto al servizio del capitale quando si tratta di salvaguardare gli interessi dei gruppi economici dominanti. L’esecutivo di “emergenza” nato sotto la pressione dei mercati borsistici si rivelerà persino più reazionario e antipopolare di quello guidato da Silvio Berlusconi. Per la serie: “dalla padella nella brace”. Ce ne accorgeremo presto.

Per introdurre un regime dittatoriale non serve più il ricorso alla violenza militare, ma è indubbiamente più efficace l’autorità morbida e persuasiva esercitata dalla televisione.

Non a caso, se un colpo di Stato è attuato direttamente dall’esercito, si definisce “golpe militare”, ma se è il potere delle grandi banche a sovvertire (o a condizionare, che dir si voglia) in modo astuto e capzioso le istituzioni democratiche, consolidando il primato della finanza sulla politica, si preferisce chiamarlo ipocritamente “governo tecnico”.

L’esperienza storica insegna che un governo cosiddetto “tecnico” riesce più facilmente (e abilmente) ad imporre all’opinione pubblica quei rimedi percepiti come impopolari e coercitivi, diversamente da un governo eletto democraticamente, che è più sensibile alla volontà di estendere o, in ogni caso, mantenere la base del consenso elettorale.

L’arroganza e la spregiudicatezza del capitale finanziario sono tendenze apertamente ostili alle istanze di partecipazione e democrazia rivendicate dal basso, ed oppongono un baluardo insormontabile che ostacola ed impedisce l’esercizio della sovranità popolare.

Si riconferma l’antitesi assolutamente insanabile che esiste tra i mercati azionari, da un lato, che rispondono solo alla ferrea, spietata e disumana legge del plusvalore, e le regole o i valori essenziali di ogni forma di convivenza civile e democratica, dall’altro. Si tratta di una situazione di inconciliabilità conflittuale e di irriducibile contrapposizione, intrinseca alla natura autentica e all’origine stessa del capitalismo, inteso tout-court.


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venerdì 15 aprile 2011

Calabria Day


Il 16 aprile prossimo lei sarà uno dei testimonial della Calabria positiva. Quella che vuole emergere sulle negatività e mostrare una nuova immagine di sé. Se questa è una delle strade possibili, cosa si potrebbe affiancarle?

«Non credo sia necessario affiancare qualcosa, ma incrementare quello che c’è: la volontà. Qualunque sia l’impresa, la costruzione umana, essa è o non è, secondo che ci sia o no la volontà. E io la vedo germinare, con forza e varietà sorprendenti, in Calabria. La regione lavora molto sul suo passato e sul suo futuro: sia con il fiorire di iniziative identitarie e popolari (gruppi musicali, teatrali, di ricerca storica), per il recupero della memoria: mi verrebbe da dire che l’antropologia culturale, più che la storia, è strumento politico, in Calabria; sia con la nascita di esperienze come “Io resto in Calabria”, “E ora ammazzateci tutti” o i giovani che trasformano in occasione di sviluppo i beni sottratti ai mafiosi: segnali forti, che denotano volontà e generano emulazione. Riassumo: il cosa c’è già; il come si sta delineando; il quanto (la formazione di massa critica, punto di non ritorno) è solo questione di tempo, se la volontà non verrà meno».


• Dal punto di vista storico-sociale quali fattori, secondo lei, hanno inciso più di altri sull’attuale condizione della Calabria?

«Uno; l’isolamento dal resto del Paese; l’isolamento all’interno stesso della Calabria: ogni paese un mondo chiuso agli altri; l’assenza di vie di comunicazione che rompessero questo isolamento. Se volessi riassumere, direi: strade, binari e marinai (non pescatori, marinai, di cui la Calabria è sempre stata scarsa, a parte qualche cristiano rinnegato poi divenuto pirata musulmano). Due: la spaventosa, per quantità, “perdita dei padri”: l’emigrazione postunitaria distrusse il sistema delle regole; una famiglia su tre era composta di sole donne, a cui l’evoluzione della specie ha assegnato la ricerca di tutte le eccezioni possibili a favore dei propri figli. Una pulsione positiva che, in condizioni degradate, diviene negativa: la mafia coltiva le eccezioni a proprio vantaggio, distruggendo le regole che mirano al bene di tutti».


• Perché la “Calabria positiva” stenta a guadagnarsi lo spazio che merita?

«Le condizioni in cui deve muoversi per conquistare spazio sono terribili. I calabresi consapevoli e “conseguenti” devono essere eroi per fare cose normali altrove. Ma sono sempre di più a farlo. Non tanti quanto servirebbe, ma tanti di più rispetto al rassegnato silenzio di ieri».


• C’è chi sostiene che la Calabria è persa. Ormai sganciata dal contesto nazionale sarebbe avviata verso una deriva senza ritorno. Ritiene che questa sia una lettura valida o, al contrario, ha intravisto segnali più incoraggianti?

«Una legge fisica e chimica dice che il mondo cambia lungo i bordi, sui confini. Con un’altra parola, non casuale: ai margini. Lì è la Calabria. E la storia (detto benissimo ne Il cigno nero di N. T. Taleb; o da Z. Bauman) insegna che il futuro emerge sempre dove e come nessuno lo aveva previsto. Tutti guardano alla Lega Nord, al Settentrione, per capire dove andrà il Paese; la sopresa potrebbe venire da Sud, e dal Sud che meno ti aspetti».


• Chi sarà il protagonista del cambiamento della Calabria e con quali mezzi questo dovrà essere perseguito?

«I fenomeni sociali sono sempre complessi. Ma se dovessi tentare una semplificazione: sono i giovani che scoprono il valore della propria terra, che non ne accettanno più la rappresentazione perdente, negativa, rassegnata. E, invece di andarsene, pensano di poterla rendere come la vorrebbero. Possono farcela».


• Che Calabria si aspetta di conoscere al Calabria Day?

«Questa che ho appena descritto. Ma ce ne sarà anche un’altra, che vorrebbe farne parte ma non ne ha il coraggio, non ha fiducia. E ci sarà, ben mimetizzata, la Calabria che nel meglio che cerca di nascere riconosce il suo nemico».


• Qual è, secondo il suo parere, il messaggio più importante che da questa manifestazione deve arrivare ai giovani calabresi?

«Uno solo: noi ci siamo e ci crediamo. E c’è posto per tutti, qui. Di tutti c’è bisogno».


• Lo potrebbe sintetizzare in uno slogan?

«Chi meno ha darà a tutti. Abbiamo cominciato».


Fonte: http://www.calabriaday.it/?page_id=725

martedì 5 aprile 2011

Il Fuoco del Sud


L’Italia disunita. In un libro di Lino Patruno l’impietosa analisi di un paese dilaniato da forti spinte centrifughe



di Romano Pitaro

Scriveva Giustino Fortunato: “Amico mio, adoperiamoci finché l’Italia vivi e perduri, perché soltanto due o tre secoli di unità possono, forse, redimere il Mezzogiorno”. In effetti 150 anni non sono bastati.

Per il Sud, anzi, scarnificato dall’Unità, sedotto e abbandonato, è stato un continuum di fallimenti. Al Nord un’area ricca e competitiva come la Baviera, al Sud l’area più depressa d’Europa che espelle giovani: a Milano nel 2009 sono giunti 15mila giovani siciliani e calabresi. Impietosa la Svimez: in undici anni, dal 1998 al 2008, 700mila persone sono emigrate dal Sud al Centro-Nord. Due Italie mai così lontane.

Mi immergo nel “Fuoco del Sud”, lo sferzante libro di Lino Patruno (Rubbettino editore) prendendo in prestito la cautela suggerita da un meridionalista unitarista come Fortunato. E sì, perché qualora sulle valutazioni razionali che inducono ad apprezzare – nonostante tutto – il valore dell’Unità, consapevoli che la storia non si fa con i se e che il Sud ha anche tanto da farsi perdonare (dal referendum istituzionale del ’46 quanto votò per la monarchia, alla scelta di classi dirigenti miopi o ‘ascare’) prevalessero le ragioni del cuore e ci lasciassimo
avvincere dalla travolgente prosa di Patruno, saggista ed editorialista della Gazzetta del Mezzogiorno dopo averla diretta per tredici anni, rischieremmo di canticchiare a nostra insaputa qualche strofa di quella scoppiettante canzone di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. Ed è fatta!

La Lega dei “duri e puri”, pur sedendo negli scranni di Roma ladrona ormai da un ventennio, non aspetta altro. Che, insomma, anche dal Sud finalmente tracimino i veleni mai evaporati contro l’annessione piemontese che lo mise a ferro e a fuoco. E inizi, anche il Sud, simmetricamente e con uguale intensità di cannoneggiamento, a professare la secessione, in vista di un addio all’Italia perennemente molesta nei suoi riguardi. E quindi a sfilare la tela dell’Unità che il grande preludio della rivoluzione giacobina del 1799, che issò la Repubblica napoletana poi capitolata nel sangue, ed i successivi moti insurrezionali, consegnarono all’Occidente dopo lo sbarco a Marsala. Ammonisce il ministro Brunetta: “Chi crede che liberarsi di un pezzo d’Italia sia utile a prendere velocità illude se stesso, o non sa far di conto”. Bene, ma ai poteri forti che muovono la Lega (industria, finanza, banche, giornali, associazioni di categoria, sindacati, partiti e università) in questa congiuntura critica, finita la Grande Abbuffata, fa comodo enfatizzare un Sud perduto, tutto “monnezza, spreco e criminalità”.

Il nuovo lavoro di Patruno ( l’ultimo è “Alla riscossa terroni”) che giunge non casualmente dopo l’euforia del 17 marzo, in effetti ha l’aria di essere, piuttosto che l’ennesimo pamphlet sui torti subiti dal Sud con corredo di citazioni e sussidi bibliografici, l’agile “libretto rosso” messo a disposizione della galassia di sigle, in verità solo in parte inneggianti al trono e all’altare. Associazioni, intellettuali e fondazioni, case editrici, periodici e siti web appollaiati sul Mezzogiorno stanco e in procinto di lanciare un piano di riscossa che dovrebbe inquietare le autorità costituite. Benché tuttora, e neppure dopo il prezioso ed inedito scavo di Patruno nella miniera “neoborbonica”, aldilà delle arcinote recriminazioni segnalate persino da Bolton King e Thomas Okey nel 1904 in un libro intitolato “L’Italia d’oggi” prefato da Benedetto Croce (“Il Mezzogiorno può provare che dall’Unità ha tratto più profitto il Settentrione sia finanziariamente sia economicamente; che è gravato al di sopra della proporzione della sua ricchezza; che lo Stato spende lire 50 per ogniabitante nel Piemonte, nella Liguria e nel Lazio, mentre spende meno di lire 15 negli Abbruzzi, nella Basilicata e nelle Calabrie; che la gran massa della moneta pubblica, erogate in ferrovie, porti ed irrigazioni, ha preso la via del Settentrione e del Centro”) sia dato capire qual è, se c’è, il disegno.

Va bene l’indignazione, ma dopo? Nel denso capitolo “Alla caccia del che fare” i suggerimenti traboccano. Di tutto e di più. Si va da chi asserisce che “il Nord ha esaurito la sua spinta propulsiva e costruire sul costruito gli causa solo forti inefficienze economiche che si scaricano sul resto del Paese sotto forma di aumento incontrollato di spesa pubblica” a chi ritiene che “Investire nel Sud è l’unica possibilità di salvare il sistema dal fallimento generale”; c’è chi è dell’avviso che “Il Sud deve arrabbiarsi di più” e chi auspica che “Il Sud esca dalla gabbia liberale”; c’è chi è convinto che “il blocco sociale su cui puntare è la nostra grande emigrazione” e chi asserisce che “bisogna cancellare la questione meridionale con una riforma costituzionale”; altri credono che “bisogna costituirsi in maxiregione autonoma o in Stato indipendente federato con gli stessi confini del Regno delle Due Sicilie” e che “Serve una rivoluzione dal basso, una nuova classe dirigente capace di traghettare il Sud dall’era nell’era post industriale”; c’è chi lo vuole “identitario” il Meridionalismo e chi rilancia le teoria economiche di Nicola Zitara per il Sud “Stato indipendente”: servono banche, impegno contro la mafia e libertà di amministrare le proprie risorse. Resta, però, il fatto che le diverse sigle non riescono mai a parlare con una voce sola. Stanno nelle retrovie. Impotenti. Non incidono in alcun modo nelle decisioni politiche. I tentativi di aggregarsi, tanti negli ultimi vent’anni, sono andati a vuoto. Senza dire del ghigno che offrono a chi fonda partiti per il Sud dall’alto (Lombardo, Poli Bortone), perché coriaceo è il sospetto sia per la forma partito che per “le sirene partitocratiche”.

Genericità e frammentazione, da un lato. Ma dall’altro, scrive Patruno, i movimenti sono “impegnati a lavorare sul futuro, battendosi per liberare il Sud dalla sudditanza subita” e, confidando sulla “Rete”, per divulgare, come mai era accaduto, “il ritrovato orgoglio meridionale e il rifiuto di un Sud di nuovo allo stremo”.

E’ la parte più intrigante del libro, quella che porta in superficie nomi e volti dei nostri giorni di tutte le regioni meridionali, le cui opinioni spesso liquidate dalla pubblicistica con l’aggettivo sprezzante di neoborbonico, sembrano voci nel deserto. Opinioni che non hanno mai smesso di contrastare le “logiche colonizzatrici”; di chiedere perché Napoli, la più grande metropoli d’Italia prima dell’Unità, “la terza in Europa dopo Londra e Parigi con oltre 400mila abitanti”, sia stata di punto in bianco “ridotta a prefettura sabauda”; perché – lo documenta l’economista Vittorio Daniele, docente all’Università Magna Grecia di Catanzaro – il divario Nord/Sud inesistente durante il Regno delle Due Sicilie, cresce a dismisura con l’avvio della modernizzazione del Paese; perché il Sud fu espropriato delle sue banche (Banco di Napoli e di Sicilia) e vennero smantellate la più grande industria metalmeccanica del momento a Pietrarsa, dove lavoravano 1050 operai (l’Ansaldo di Genova occupava 480 operai), e il complesso siderurgico di Mongiana che diede il ferro per la realizzazione del primo ponte sospeso di 76 metri sul Garigliano; perché fu introdotta una fiscalità feroce che con la tariffa doganale piemontese e la tassa sul macinato svuotarono il Sud e aprirono le porte alla soluzione finale: la grande emigrazione meridionale, che vide scappare dal Sud tra il 1887 ed il 1914 sei milioni di persone.
Gettano fasci di luce le opinioni di questi “nuovi briganti” su tante bugie risorgimentali sparse a pieni mani nel dibattito pubblico. Commenta Patruno: “Al Sud servirebbero di nuovo i briganti, agguerrite bande a mano armata di megafono e non di moschetto, dell’ardimento della parola più che della proditorietà del gesto, briganti della comunicazione che stimolino le coscienze, suscitino la ripulsa soprattutto in un’Italia unita mai così disunita”. Oltre le pubblicazioni e la convegnistica, dinanzi alle sempre più laceranti emergenze sociali, Patruno intuisce che nella pancia del Sud c’è un sommovimento che non ha udienza nelle Istituzioni e cova rivalse, anche se non minacciano rivoluzioni né progettano tumulti. Non ha cittadinanza nei media nazionali torturati dalla cronaca politica ed è a questa galassia che si rivolge. Spiega: “Il ‘Fuoco del Sud’ sempre ignorato, macina con la inquietudine sotterranea di un vulcano mai spento, un’energia soffocata, la rabbia repressa di un torto subito. E proprio la convinzione dell’ingiustizia di una storia dell’Unità scritta ancora una volta dalla parte dei vincitori e mai dei vinti è la scintilla che attraversa un Sud sommerso e ribollente per quanto a lungo silente, frustrato, diviso, scoraggiato”. Il libro mira, in apparenza almeno, a inserirsi nel lungo filone del recupero della memoria, ma è chiaro che è frutto, anch’esso, delle recriminazioni in cui s’immerge e su cui getta benzina. Fin dal titolo, infatti, “Fuoco del Sud”, amplifica le doglianze, violenze patite, gli eccidi, stupri e le rapine di ieri. E con il contributo di economisti ribalta luoghi comuni che oggi vorrebbero il Sud parassita e immobile. Offre, mentre s’imbatte nella rabbia espressa nel web di un movimento che ha radici nel Sud e in quell’altro Sud che è il Nord zeppo di meridionali, parole d’ordine e chiavi di lettura a chi l’animosità verso l’annessione non l’ha mai deposta. Il libro tende a diventare il vademecum di un movimento che, dal 1861 fino ai nostri giorni, non ha mai smesso di ricordare la pagina vergognosa del primo genocidio e della prima pulizia etnica della nostra storia comune (Nino Bixio sosteneva che “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare, mandarli in Africa a farsi civili”) con l’uccisione di migliaia e migliaia di contadini definiti briganti, e che oggi denuncia non l’acrimonia tra centrodestra e centrosinistra, ma la guerra ininterrotta tra Nord e Sud. Quel Nord che ha fatto del Sud “un paradiso abitato da diavoli”.

Occorre però stare attenti, se si vuol evitare di sfondare l’Italia repubblicana figlia di più vicende, di due guerre mondiali, della resistenza, della Costituzione e del “sogno europeo” che nel mondo disorientato è un punto da cui ricominciare. Non dobbiamo dimenticare che 150 anni sono pochi, per permettere ad un Paese di fronteggiare spinte centrifughe di tale asprezza. Specie se all’irruenza politicamente potente della Lega si sommasse il “Fuoco del Sud”. E’ vero che anche la Francia (separatismo corso), la Spagna ( l’Eta e il separatismo della Catalogna) e l’Inghilterra (Ulster) hanno problemi interni, “ma – spiega Romano Bracalini nel suo “Brandelli d’Italia” edito anch’esso da Rubbettino – i tre Stati possono vantare una storia unitaria quasi millenaria e nessuno minaccia la loro stabilità. Mentre l’Italia, non avendo risolto i problemi che mettono tuttora a repentaglio la sua unità nazionale, è più simile alla Cecoslovacchia e al Belgio”. E sappiamo cos’è successo da quelle parti.

da Il Quotidiano – domenica 3 aprile

Fonte:Onda del Sud

domenica 27 marzo 2011

Banca del Sud affare del Nord


di Lino Patruno


Per favore, fateci capire sulla Banca del Sud. Ci vogliono entrare le Banche popolari del Nord, e allora uno dice: finalmente si sono convinti che al Sud si può lavorare bene. Poi però si apprende che pretendono il 60 per cento: cioè appropriarsene.

Le Banche popolari del Nord sono quelle che curano gli interessi delle piccole e medie im­prese settentrionali. Atroce sospetto: la Banca del Sud cavallo di Troia per venire ancòra una volta a fare affari al Sud. Magari come 150 anni fa, quando vennero per “portare” la libertà e finirono per “portarsi” il territorio.

Ma a pensare male si fa peccato. Poi però si apprende inoltre che il candidato alla guida di questa Banca del Sud è Massimo Pon­zellini, presidente della Banca popolare di Mi­lano, città più vicina alle Alpi che al Me­diterraneo, anche se, udite udite, è la città che ospita la Conferenza sul Mediterraneo. De­vono aver scambiato l’acqua salata con la ne­ve. Merito principale di Ponzellini, oltre a tutto il suo curriculum vitae ecc. ecc., essere gradito a tal Umberto Bossi, che così si can­dida a mettersi alla testa anche del Mezzo­giorno. Bisogna però ammirare la coerenza storica. Anche la Cassa per il Mezzogiorno fu una Cassa per il Mezzogiorno ma fece tornare quasi tutti i soldi al Nord: Cassa per il Set­tentrione. Una partita di giro per l’acquisto di prodotti del Nord, per i lavori pubblici che le imprese del Nord vennero a eseguire al Sud, per gli incentivi che le medesime si presero al Sud senza che nessuno controllasse mai se i capannoni che innalzavano diventavano in­dustrie (si dovrebbe organizzare un viaggio nei cimiteri meridionali delle industrie mai nate).

Coerenza storica ma anche continuità sto­rica. Nei giorni scorsi, “La Stampa” di Torino ha avuto l’ammirevole onestà di riportare quanto ogni anno il Nord esporta al Sud: circa il 70 per cento della sua produzione. Se ci aggiungiamo i servizi (esempio la spesa delle Regioni meridionali per i ricoveri al Nord) e i costi dell’emigrazione (un laureato costa al Sud circa 100 mila euro e ne emigrano 80 mila all’anno), si arriva a 96 miliardi di euro che il Sud trasferisce ogni anno al Nord.

Dal Nord al Sud scendono invece 50 miliardi all’anno (il famoso “Sacco del Nord”). Anzi non scendono dal Nord al Sud, ma da chi è più

Ministro on. Umberto Bossi

ricco e paga più tasse (diciamo) a chi è meno ricco: scendono insomma anche da un lom­bardo benestante a un lombardo malestante. Principio di solidarietà alla base di tutti i moderni Stati democratici. Anche se fa dire al suddetto Bossi che il Sud vive a spese del Nord (titolo della “Padania” per la festa dell’unità: “Il Nord paga, il resto d’Italia festeggia”).

Il Sud si deve fare restituire 46 miliardi all’anno. Anzi di più. Perché non solo nel frattempo la spesa pubblica dello Stato con­tinua a essere maggiore al Nord (lo dice il ministero di Tremonti). Ma bisogna aggiun­gerci i 25 miliardi (almeno) di fondi Fas de­stinati appunto alle aree svantaggiate e finiti invece a coprire il taglio dell’Ici in tutt’Italia, la cassa integrazione soprattutto per le aziende del Nord, le multe ai lattivendoli padani che hanno prodotto più del pattuito fregando per primi i colleghi altrettanto padani. Ma per loro Bossi ha un debole.

Perciò crede ancora alla Befana chi teme che la Lega Nord voglia la secessione stac­candosi dal resto d’Italia. Saranno un po’ ru­stici ma non fessi. L’articolo uno del loro sta­tuto parla di “indipendenza” della Padania, cioè appunto di secessione. Ma non aggiunge se deve essere secessione statale o economica. E’ sufficiente quella economica. Cioè quella che si sta realizzando e sarà definitiva col federalismo: ciascuno si tiene il suo. Ma già il Nord, come abbiamo visto, si tiene quello del Sud. Il quale starà ancòra peggio perché, es­sendo più debole, non potrà che aumentare le tasse per dare almeno stessi asili e bus di ora.

E però la parola d’ordine è la solita: col federalismo il Sud starà meglio. Bisognerebbe sospettarne solo perché lo dicono Calderoli e compagni, notori malefattori del Sud. Il Sud dovrebbe stare meglio perché si dovrebbe go­vernare meglio. Detto da chi, col Paese terzo indebitato del mondo, continua ogni anno ad aumentare la spesa pubblica invece di dimi­nuirla.

Inutile aggiungerci contorni. Caro carbu­rante: le addizionali regionali penalizzano il Sud. Assicurazione obbligatoria auto: il 50 per cento in più di costo al Sud perché, teorizzano, più a rischio truffe (ma anche se uno non ha mai fatto incidenti paga di più rispetto a uno altrettanto “buono” del Nord). Ci sono troppi alpini meridionali, mandiamoli via. E gli insegnanti meridionali al Nord devono cedere il posto a quelli locali anche se questi sono so­mari e loro bravi. Infine viene il cantante Grignani a Bari e di fronte a un impianto audio difettoso che il suo stesso staff aveva controllato dice: siamo in Puglia non a Ber­gamo. Anzi Berghèm.

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 25 marzo 2011

www.linopatruno.com


Fonte:Onda del Sud

martedì 22 marzo 2011

Non lo sapevo !!


Benvenuto sul Sito Internet del Comune di Tarsia
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La costruzione, del Campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, ha avuto inizio nel maggio 1940 ed è stata eseguita dalla ditta Parrini di Roma; alla stessa è stata affidata successivamente la manutenzione di tutto il Campo.

Il Campo, a differenza degli altri Campi di Concentramento italiani fu costruito ad hoc, e, nell'aspetto esteriore ricordava chiaramente un lager nazista, fatto com'era da lunghi capannoni e posto nell'immediata vicinanza della linea ferroviaria Sibari-Cosenza.

È stato il più grande ed importante Campo di Concentramento fascista Italiano, con una presenza media di oltre 2000 persone ed una punta massima, raggiunta nell'estate 1943, di 2.700 persone.

Era costituito da 92 baracche su un territorio di circa mq. 160.000 circondato da un recinto di filo spinato, sorvegliato dall'esterno lungo il suo perimetro dalla Milizia Fascista (gente del luogo e dei paesi vicini), mentre all'interno era sorvegliato da un Commissariato di Pubblica Sicurezza alle cui dipendenze vi erano un gruppo di agenti ed un Maresciallo.

Il Campo sorgeva nella Valle del Fiume Crati, a circa 6 Km dal paese di TARSIA, in una zona malsana, malarica e paludosa, dove erano in corso lavori di bonifica. Durante il periodo di prigionia molti internati si ammalarono e morirono di malaria. Esso entrò ufficialmente in funzione il 20 Giugno 1940.

Tra la fine di giugno e luglio 1940, giunsero a Ferramonti, provenienti da varie città dell'Italia Centro-settentrionale, più di un centinaio di Ebrei, solo uomini. Giorno dopo giorno arrivarono centinaia di persone così da formare, all'interno del Campo, una varietà di culture, lingue e usanze, ma dando anche luogo a non poche difficoltà dovute all'eccessiva popolazione ed alle ristrettezze economiche.

Dall'autunno del 1941 gli internati di Ferramonti non furono più soltanto Ebrei, Dalla Jugoslavia occupata, cominciarono ad arrivare moltissimi internati ariani, uomini politici e semplici cittadini che avevano avuto contatti con i partigiani.



Nel novembre 1941 arrivarono a Ferramonti i primi nuclei di Cinesi, altri profughi fuggiti dai Campi di concentramento della Germania e della Polonia giunsero da Rodi, si trattava per lo più di Ungheresi imbarcatisi a Bratislava, il 16 Maggio 1940 sul "Pentcho".

Gli internati arrivarono a Ferramonti sempre ammanettati, accompagnati da Carabinieri, venivano fatti scendere alla stazione ferroviaria della vicina Mongrassano e da qui proseguivano a piedi per circa 6 Km. Alcune volte, venivano fatti scendere direttamente al Casello Ferroviario di Ferramonti, a pochi metri dall'ingresso del Campo.

Il primo Commissario di P.S., nominato dal Ministero degli Interni a dirigere il campo fu Paolo SALVATORE.

Il 10 Luglio la Direzione del campo, rese noto il regolamento disciplinare a cui dovevano attenersi gli internati, che, riportava quanto previsto dalla Circolare ministeriale n. 442/12267, emanata l'8 giugno 1940 ed avente ad oggetto la prescrizione per i campi di concentramento e le località di confino.

Sottoposti a 3 appelli giornalieri, gli internati non potevano uscire dalle baracche prima delle 7.00 e dopo le 21.00, o superare i limiti del Campo senza uno speciale lasciapassare. Non potevano occuparsi di politica, né leggere, senza autorizzazione, pubblicazioni estere e la corrispondenza. Pure proibiti erano la detenzione e l'uso di apparecchi fotografici e radiofoniche e di carte da gioco. Non era invece previsto l'obbligo di lavorare, chi non aveva altri redditi per il proprio mantenimento, riceveva un sussidio governativo.

Gli internati realizzarono ben presto una organizzazione interna a carattere democratico basato sull'elezione diretta di un delegato per ogni baracca. Essi si riunivano tutte le settimane in una sorta di Assemblea dei delegati delle baracche, che eleggeva al suo interno un rappresentante generale di tutti gli internati, il Capo dei Capi delle baracche. Il più prestigioso fu GIANNI MANN.

Il Direttore del campo riconosceva ufficiosamente l'esistenza degli organi di autogestione e si appoggiava volentieri ad essi per mantenere quella tranquillità necessaria specialmente con l'arrivo delle donne e dei bambini.

Con l'arrivo dei bambini sorsero nuovi problemi in ordine alle scarse capacità alimentari e all'istruzione. Un sostanziale aiuto venne dato dalla organizzazione di ISRAEL KALK.



Con il beneplacito del Ministero degli Interni e della direzione, l'ing. Kalk poté dare il suo sostegno materiale e morale in quei duri anni agli internati di Ferramonti.

Gestiti degli stessi internati funzionarono una scuola, un asilo, un ambulatorio medico e, inoltre, si svilupparono varie attività artistiche, culturali e religiose, sia ebraiche che cristiane.

Tra gli internati del Campo vi erano decine di medici, tre rabbini, illustri pittori e musicisti, numerosissimi insegnanti e studenti universitari. Ognuno cercava di svolgere varie attività. La scuola del campo, fondata nell'autunno del 1940 da ERICH WITTENBERG (profugo dalla Cecoslovacchia, che fu il primo direttore) si arricchì di nuovi corsi e fu affiancata da un asilo per i più piccoli. All'interno del Campo vennero aperte anche 3 Sinagoghe.
Il 22 Maggio 1941, il Campo di Ferramonti, veniva visitato dal Nunzio Apostolico presso il governo italiano, Monsignor Francesco BORGONCINI-DUCA.

In occasione della visita del Nunzio Apostolico, gli ebrei chiesero di avere a Ferramonti una continua assistenza spirituale. Due mesi dopo fu inviato nel Campo il Cappuccino sessantacinquenne Padre Calisto LOPINOT, che presto riuscì ad accattivarsi la stima anche degli internati non Cattolici.

Visitò più volte il Campo di Ferramonti il Rabbino Capo di Genova dottor Riccardo PACIFICI, il quale celebrò solenni cerimonie nel Campo. Frequenti le manifestazioni artistiche e dibattiti culturali a Ferramonti: la vita culturale fu particolarmente intensa se non altro perché al suo interno si trovarono riuniti molti artisti di talento, vennero organizzati spettacoli teatrali, mostre di arte, corsi per adulti, conferenze.
La vita musicale era curata dal Maestro LAV MIRSKI, che prima della guerra era stato direttore d'orchestra all'Opera di OSIJEK (Jugoslavia). Anche lo sport ebbe grande impulso e in esso primeggiò il calcio, molto seguiti erano i tornei di scacchi .



I numerosi medici internati, spesso, alla fine della guerra furono autorizzati a curare anche persone dei paesi vicini. Uno di essi, dopo la liberazione, si trasferì proprio nel paese di Tarsia, dove rimase per circa 1 anno; un altro impiantò lo studio a Castrovillari, una cittadina a circa 30 Km. da Tarsia.

Nel 1943 fin dal primo mese avvennero numerosi episodi che mutarono le condizioni all'interno del Campo. Il 22 Giugno 1943 il direttore del Campo Paolo SALVATORE, venne trasferito, fu sostituito nel ruolo da Mario FRATICELLI.

Nell'estate 1943 la malnutrizione e la fame erano ormai una consuetudine a Ferramonti. Giungevano nel Campo una nuova categoria di internati, gli antifascisti italiani trasferiti da altri luoghi di detenzione.

Il 25 luglio 1943, un telegramma del Sottosegretario di Stato, diretto al Capo della Polizia chiedeva il trasferimento degli internati di Ferramonti di Tarsia nella Provincia di Bolzano ad un tiro di schioppo dalla fortezza tedesca. Ma quel giorno la storia avrebbe riservato altri avvenimenti: MUSSOLINI venne deposto e gli internati, temporaneamente, furono salvi.



Il 14 Settembre del 1943, verso le otto del mattino, sulla strada di Ferramonti apparivano i carri dell'VIII Armata Britannica. La Liberazione di Ferramonti avvenne in modo del tutto imprevisto.

La maggior parte degli internati, anche dopo l'arrivo degli alleati, non sapendo esattamente dove andare e cosa fare rimase a Ferramonti o si trasferì nella vicina Cosenza. L'abbandono del Campo si è avuto solo alla fine della seconda guerra Mondiale con la liberazione di tutta l'Europa dal giogo nazi-fascista.

Successivamente all'abbandono completo, da parte degli internati, le baracche che erano ben tenute non vennero in alcun modo vigilate e così iniziarono veri e propri saccheggi che vennero completati alla fine degli anni ‘60 dai lavori autostradali (A3 SA/RC) che ha diviso e sventrato in due tronconi le baracche esistenti.



Oggi poco è rimasto: le uniche baracche sono quelle che, durante il funzionamento del Campo, erano state utilizzate dalla Direzione e dagli uffici dell'Amministrazione del Campo, grazie alla cura dei coniugi PETRONI, dipendenti della Ditta PARRINI, che vi dimorarono fino alla loro morte (primi anni '90).

Del Campo di Concentramento nessuno parlò fino alla metà degli anni ‘70. Il Prof. Franco FOLINO, professore di lettere della vicina Roggiano Gravina, alla luce dei racconti di cittadini che hanno vissuto personalmente quegli anni, ha voluto approfondire questi racconti regalando così il suo primo libro su Ferramonti.

Ma solo alla fine degli anni 80, le istituzioni cominciarono a rendersi veramente conto ed a conoscere di nuovo Ferramonti ex Campo di Concentramento.

Così negli anni ‘90 l'Amministrazione Comunale di Tarsia, ha iniziato a mettere in atto iniziative concrete tese a valorizzare il " patrimonio "Ferramonti, così si è resa protagonista di atti formali, quale appunto far sottoporre, in data 30/08/1999, l'area a vincolo da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e procedendo alla recinzione di tutto il terreno.

Avendo registrato grande interesse, soprattutto da parte delle scuole, e vista la poca sensibilità da parte delle istituzioni sovra-comunali, L'Amministrazione Comunale di Tarsia, in collaborazione con il Comitato PRO-FERRAMONTI, oggi Fondazione " Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia ", ha voluto dare un segnale forte realizzando all'interno di una baracca, il Museo della Memoria, che, ripercorre, con documenti e fotografie, gli anni in cui il Campo di Ferramonti è rimasto attivo. Il tutto è stato interamente realizzato con finanziamenti Comunali.





Il Museo è stato inaugurato il 25 Aprile 2004 ed è gestito dalla " Fondazione Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia ", di nuova costituzione.





BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

• F. Folino: " Ferramonti un lager di Mussolini ", Editore Brenner, Cosenza 1985;

• C. S. Capogreco: " Ferramonti, la vita e gli uomini del più grande campo di concentramento fascista (1940-1945) ", Giustina, Firenze 1987;

• F. Folino: " Ebrei destinazione Calabria (1940-1943) ", Editore Sellerio, Palermo 1988;

• F. Folino: " Ferramonti? Un misfatto senza sconti ", Editore Brenner, Cosenza 2004.

Per qualsiasi informazione telefonare al n. 0981-951881.
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lunedì 21 marzo 2011

L'Italia ha già perduto la sua campagna di Libia


Di Daniela Scalea

Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.

Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”. Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).

L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).

Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”. Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni). Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili. La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.

La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione. Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.

Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.

Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni. La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%). La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli. La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia. La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico. I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem. Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese. Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora. Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.

Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.

La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci. Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).

L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.

L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio). Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio). Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo). Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.

È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore. Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia. L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia. Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.

Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943. Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.

Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte. Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (Roma 2010). È co-autore, assieme a Pietro Longo, d’un libro sulle rivolte arabe di prossima uscita.


Fonte:Eurasia

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lunedì 14 marzo 2011

Se le case sono brutte ...


Scritto da Antonio Fiamingo Francesco Mangialavori il 7, mar 2011 in Ambiente e Territorio
Se le case sono brutte…

«… si sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno sbagliato quasi tutto. É sorprendente come siano riusciti, in un tempo tutto sommato neanche tanto lungo, a rovinare bellissimi paesaggi con brutte costruzioni… per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze ancorché preponderanti si potrebbe combattere. Il guaio grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. É comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà… L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile… I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali». (da “La ricchezza della povertà” di Giuseppe Berto)

Difficile dirlo meglio, Giuseppe Berto aveva talento da vendere. Descrivere la mentalità calabrese contemporanea e allo stesso tempo sia le sue cause sia i suoi effetti è un esercizio intellettuale di non poco conto. A nostro modo di vedere, quello che Berto nel 1972 scriveva sulla civiltà contadina è oggi più attuale che mai perché “purtroppamente” ancora non compiuto nel suo disegno scellerato, guidato da una folta schiera di Cetto La Qualunque in rappresentanza popolare. E, forse ancor più grave, con l’approvazione di un “cettismo” generale latente nella popolazione calabrese. Sulla stessa linea dello scrittore di Mogliano Veneto, Laura Aprati racconta su strozzatecitutti.info che una volta un costruttore le disse: “quando arrivi in un territorio guarda le case, come sono costruite, cosa hanno intorno. Sono la fotografia economica e sociale della gente che lo vive”, e continua scrivendo che “basta entrare in alcuni paesi calabresi e vedere gli scheletri delle case, l’abusivismo dilagante, i teli di plastica alle finestre. Sono l’istantanea di una regione ferita nel suo profondo, nella dignità e nel fisico”.Abbiamo fatto un giro veloce in macchina per i paesini del “Giardino di Proserpina”, la parte della provincia di Vibo Valentia che dalla fine dell’altopiano del Monte Poro si affaccia lungo la Costa degli Dei, tra Pizzo a Nicotera. Volevamo documentare con delle fotografie l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di criterio estetico, paesaggistico, ambientale, cromatico, storico/architettonico, di conservazione dei beni culturali, nella costruzione degli edifici urbani. L’intenzione era mostrare ciò che Berto aveva descritto così bene. Inoltre volevamo verificare se nei loro piani regolatori gli amministratori locali avessero inserito dei regolamenti che vincolassero al rispetto di norme estetiche per la tutela del patrimonio paesaggistico o perlomeno al decoro urbano (dimensionamento, discipline del colore, vincoli in materia di restauro, valorizzazione dei centri storici, ecc.). Il nostro giro in macchina è stato talmente illuminante che bisognerà scrivere e soprattutto vedere e fotografare ancora molto altro. Anche perché si sa che le cose che abbiamo sotto gli occhi sono le più difficili da vedere, da notare, perché sono familiari, abituali, scontate, a cui siamo persino indifferenti… soprattutto quando rivelano nostre profonde lacune e sofferenze, così ben radicate e stagionate da apparire immutabili e inevitabili. Tuttavia, quello che ci differenzia dal pensiero dominante è l’impossibilità di credere che il marcio sia prestabilito, che il brutto sia immutabile e che questa nostra stramaledetta Calabria non si possa rivoluzionare in meglio. A noi sembra che i calabresi debbano fare uno sforzo culturale e smetterla di pensare che case gigantesche e mai finite siano in qualche modo la rivincita su una storia di miseria e disprezzo subìto. Noi pensiamo che bisogna tornare al “bello”, al “piccolo” e a quel genere di architettura che ci appartiene, che s’incastona alla perfezione nei nostri meravigliosi paesaggi collinari e marittimi, espressione di una tutt’altro che povera cultura del passato ricca invece di dignità e umile lavoro. Un passato, il nostro, che in realtà deve diventare presente nelle sue positività, in un contesto di valorizzazione di una Terra bisognosa di quell’attenzione che merita anche solo per la sua intrinseca bellezza che ci ha donato. D’altro canto è ormai necessario che le amministrazioni locali si facciano promotrici e guide in questo percorso di rinascita architettonico-urbanistica predisponendo regolamenti vincolanti che migliorino il volto dei nostri paesi. Solo in questo modo, il fascino di molte aree interne oggi ancora poco conosciute e considerate verrebbe alla luce, e vivrebbe anche del turismo dovuto alla bellezza delle zone costiere calabresi, in una varietà paesaggistica forse unica nel panorama italiano. Da cosa nasce cosa. O no?

mercoledì 9 marzo 2011

Scrivi Politica leggi Abuso !!


Tutti abbiamo un fratello che cerca un lavoro e non lo trova. Una cugina infermiera che vorrebbe essere trasferita da un ospedale all’altro. Un amico di famiglia che vorrebbe diventare capufficio. L’avvocato iscritto allo stesso club che vorrebbe qualche pratica legale di un ente importante. L’imprenditore che vorrebbe qualche appalto. Il condomino che vorrebbe la consulenza. Tutti sono convinti che ci vuole la chiave politica per ottenerlo, spetti o non spetti. Anzi sono un po’ rassegnati a non riuscirci, un po’ alla caccia del modo per riuscirci. Trovandosi spesso, se la chiave non è giusta, davanti al muro edificante della politica che risponde: noi non facciamo favori, noi siamo per la legalità, per noi vale il merito, noi siamo persone corrette. E per favore: noi non facciamo telefonate, né, vi prego, vorremmo riceverne.

IO DO A TE, TU DAI A ME - Sarebbe bello così. E magari qualche anima pia ci crede anche. Poi spuntano le intercettazioni di una qualsiasi delle ultime inchieste giudiziarie sulla politica e sulla pubblica amministrazione, e si capisce puntualmente tutto il contrario. Magari non reati. O reati che, se lo sono, saranno accertati dopo tanto di quel tempo che nessuno se ne ricorderà più. Ma comportamenti tali da far venire il disgusto per la politica, da far arrivare alla spiccia conclusione che è tutto uno schifo, la prossima volta non vado neanche a votare. Ora non vengano fuori i soliti professionisti del distinguo: sono casi isolati, nessuno si permetta di parlare di sistema. Non vengano fuori i soliti professionisti dell’accusa di qualunquismo per chiunque li scopre con le mani nella marmellata.

E’ un sistema. Perché stranamente compare ovunque si vada a togliere il coperchio. E che forse non viola la legge dei codici ma di sicuro viola la legge della morale. Anzi non della morale, che non frega più niente a nessuno, ma della decenza. Anzi non della decenza, che meno che mai frega niente a nessuno, ma della dignità, se riesce a smuovere ancòra qualcuno. Fare del proprio potere, anzi della propria funzione non un servizio alla comunità ma un servizio ai parenti, ai conoscenti, al compagno di partito, a chi ha dato i voti, a chi potrebbe darli. E tutto con soldi pubblici, cioè i soldi di tutti, compresi quelli che vorrebbero pulizia e ritrovano marciume. Il sistema è sistema perché c’è una perfetta contabilità del dare e dell’avere: io oggi chiedo e ottengo da te, tu domani chiedi e ottieni da me. Un circolo chiuso, una rete che diventa la normalità. Questa la scoperta più impressionante: la normalità del comportamento. Così diffuso da ritenere che nessuno si ponga il problema se sia giusto o no. Appena si è eletti o si entra in carica scatta il delirio di onnipotenza e di impunità. Il diritto ad abusarne. Ad arricchirsi. A fare il comodo proprio. A prendere tutto sùbito. A piazzare qui e là chi si vuole. A sollecitare la delibera. Ad accelerare la pratica. A spingere la decisione. A sensibilizzare chi non ci sta e potrebbe mettersi di traverso, fare il fanatico. A far girare di qui e lì sempre i soliti noti, il mestiere della politica per chi spesso non ha mai avuto un mestiere. E con la politica che si infila anche dove non c’entra un fico.

L’INCOMPETENZA AL POTERE - Così la politica ti nomina il primario ospedaliero senza capire un’acca di bisturi ma capendo molto di clientelismo. Così la politica ti nomina il presidente della municipalizzata che non capisce un’acca né di bus né di igiene urbana. Così la politica ti piazza nel consiglio di amministrazione senza che ne capisci un’acca di bilanci. Così la politica ti sistema nel consiglio direttivo della banca senza che ne capisci un’acca di conti correnti. Così la politica ti affibbia una protesi al ginocchio che ti farà camminare peggio. Non il diritto ma l’abuso, non la competenza ma l’incompetenza al potere. Con i risultati sotto gli occhi di tutti: disservizio, inefficienza, cattiva amministrazione, sprechi.

Questa politica sembra un grande ufficio di collocamento, un supermercato di qualifiche e di assunzioni, di promozioni e di incarichi, di assegnazioni di lavori e di attribuzioni di fondi. Un maxi-rigurgito di ingordigia. La politica del non ti preoccupare ci penso io, del faccio io un intervento, del dammi qualche giorno e risolviamo. Sarà lo sfogo di un cittadino di cattivo umore e che esagera. Ma è ciò che quel cittadino che non si arrende al peggio pensa leggendo, per esempio, del perenne scandalo della sanità in Puglia.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 5 Marzo 2011

martedì 22 febbraio 2011

Roberto Benigni e le "dimenticanze" sull'Unità d'Italia

Di Gennaro Limite
Prima di qualsiasi riflessione sul lungo monologo-esegesi sull'Unità d'Italia e sull'inno di Mameli con il quale Roberto Benigni ha intrattenuto i telespettatori e gli ospiti del Festival di Sanremo, è doverosa una precisazione: chi scrive ha in corpo quel "sano patriottisimo gioioso" del quale ha parlato con grande trasporto e sincerità il grande comico toscano; chi scrive non crede e mai crederà nella divisione del Bel Paese; chi scrive non si lascia tentare da nostalgie borboniche e filo-monarchiche alla "w o' re".
La critica alla critica benignana, dunque, parte esclusivamente dal desiderio sempre più forte di vedere finalmente riemersa una verità storica che proprio da 150 anni viene sommersa da tonnellate di menzogne, favole raccontate dai vincitori ed insulti perpetui e sfacciati alle vittime di un'Unità che è stata, come ogni processo di unificazione nazionale, violenta e per nulla romantica e repentina.
Del resto, anche senza nutrire particolari simpatie per la casa Borbonica, vederla descritta come una sorta di cancro salvificamente ed altruisticamente estirpato dalla venuta dei Savoia, risulta ingiusto e gravissimo soprattutto per i milioni di meridionali uccisi non certo per essere "liberati" dall'oppressore borbonico, ma, al contrario, per subire una vera e propria colonizzazione ed un durissimo e barbarico regime volto esclusivamente ad assorbire più risorse possibili ed a risucchiare le ricchezze di un territorio che non è nato povero come la retorica didattica dilagante vuole lasciar credere.
Non si comprende, infatti, la descrizione eroica ed appunto romanzata di personaggi sicuramente controversi come Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso conte di Cavour. Così come non si comprende il motivo della "beatificazione leggendaria" di quella marcia dei 1000 che di eroico ebbe poco o nulla e di furfantesco-fortunoso moltissimo. Eppure, le verità (scomode) sull'Unità d'Italia dovrebbero essere oramai stranote a personaggi del calibro di Benigni e dovrebbero trovare finalmente spazio anche sulla tv nazionale. Se Unità fraterna, profonda, reale e trasparente deve essere, allora occore sapere cosa è sul serio accaduto per ottenere quella farlocca che ci ritroviamo oggi. Non per dividere; non per creare ulteriori atomismi in un paese già "geneticamente" frammentato in ridicole e miopi lotte identitarie aggrappate al passato e terrorizzate dal presente e dal futuro; non per fomentare sentimenti scissionisti o di vendetta nei confronti dei pronipoti di quei soldati settentrionali che massacrarono le popolazioni del Sud. Ogni vera nazione matura, però, ha dovuto trovare il coraggio e la forza di guardare negli occhi la violenza del proprio passato e delle proprie lotte intestine. La guerra fratricida, piaccia o no, fa difatti parte della storia dell'uomo fin dalle origini.
Tanto per citare uno dei casi più eclatanti ed eloquenti, basta ricordare che anche gli americani hanno lottato duramente prima per la propria indipendenza dalla corona britannica e, successivamente anche tra loro durante la guerra di secessione. Ai bimbi statunitensi, però, non si insegna una storia romanzata e fuorviante ma si presenta fin da subito la cruda realtà e le sanguinose lotte che i patrioti hanno condotto per dar vita a quella che resta ancora la potenzia mondiale. Benigni avrebbe forse potuto tentare una mossa incredibilmente ardita che comunque lo avrebbe inscritto per sempre nelle memorie di questo travagliato paese: parlare della vera Unità italiana per combatterne l'appiccicamento posticcio di etichette e storie da osteria brianzola imposto da 150 anni ad una nazione che ha giustamente definito "minorenne". Avrebbe ad esempio potuto dire che senza rinascita del Sud la penisola non ha speranze di sopravvivere alle sfide del mondo globale. Avrebbe potuto ricordare che sapere quanto il Regno delle Due Sicilie fosse stato grande, non serve per rievocarlo o per trovare giustificazioni ed intonare lagne vittimistiche ma, al contrario, per ricordare a chi è nato nel Mezzogiorno che ha tutte le possibilità per essere di nuovo "potente".
Avrebbe poi potuto ricordarsi di Cialdini, degli eccidi nei villaggi meridionali, del glorioso (e depredato) Banco di Napoli, della distrutta industria navale e tessile dei Borbone; dei primati incontestabili del loro regno. Non lo ha fatto ed ha scelto un buonismo unitario di eccelsa qualità per contrastare la misera e populistica retorica secessionista della Lega Nord. Il risultato è stato buono per la "massa" ma sicuramente monco per chi, da grandi uomini come l'artista toscano che ci rende onore nel mondo, si aspetta cose altrettanti grandi e slanci coraggiosi.
La polemica infinita su quei 250.000 euro che sarebbero frutto di un compenso troppo generoso, in ultimo, non fa altro che confermare per l'ennesima volta l'incredibile, imbarazzante, ipocrita e quasi grottesca retorica di una destra già umiliata ed umiliante ai tempi di Indro Montanelli ed oggi definitivamente destinata, come del resto la sedicente sinistra, ad un moralismo ad personam che si dimostra sempre più incapace di trovare contatto con una moralità diffusa, forte e credibile.

IL VERO RISORGIMENTO ITALIANO RACCONTATO DAI GRANDI
Del resto, come tutti i più informati sanno, sono innumerevoli gli storici e gli intellettuali che nel corso degli anni hanno tentato di far emergere la verità storica sul Risorgimento italiano. Di seguito, per aiutare anche i lettori più assuefatti alla propaganda retorica dei vincitori, ci permettiamo di citare Indro Montanelli, Antonio Gramsci ed addirittura lo stesso conte di Cavour

"La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto su dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola!"
Indro Montanelli

"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti".
Antonio Gramsci

"Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati"
Camillo Benso conte di Cavour (all’ambasciatore Ruggero Gabaleone)

"Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
Giuseppe Garibaldi

E dunque, perchè continuare a voler forzare un sentimento unitario raccontando fiabesche e spudorate menzogne e soprendersi per il fatto che quest'ultimo è appunto poco spontaneo e sentito dalla popolazione? Com'è possibile che anche Benigni abbia accettato di farsi portatore di una mole così schiacciante di falsità ed omissioni? E com'è possibile che molti sedicenti italiani sia così allergici a ridiscutere le proprie errate convinzioni? Tutti dilemmi tipici di un paese adolescente popolato da ingenui presuntuosi e governato da cinici ed avidi ottuagenari.

Fonte:Julienews

sabato 19 febbraio 2011

FEDERALISMO FISCALE 2011/ L'inghippo dei fabbisogni standard per festeggiare la fine dell'Unità d'Italia


di Ferdinando Imposimato - La Voce delle Voci

federalismo_fiscale_2011Nel 150° anniversario dell'Unita' d'Italia, mentre la pubblica opinione e' distratta dagli scandali che coinvolgono il premier e umiliano il Paese, si sta verificando paradossalmente laspaccatura in due dell'Italia per effetto della riforma federale. La riforma fiscale, che fu sostenuta da quasi tutto il Parlamento, sembra una trappola per molti ignari cittadini. Il terzo decreto attuativo attribuisce a Sose spa (insieme a Istat e Ragioneria dello Stato)il compito di fissare i fabbisogni standard degli enti locali nelle loro funzioni fondamentali.

La questione dei fabbisogni e' laarchitrave del federalismo fiscale. Dalla loro determinazione dipendera' la tutela dei diritti sociali. E' assurdo che il decreto sottragga al Parlamento e deleghi ad una spa e all'Istat l'individuazione dei fabbisogni e dei livelli delle prestazioni concernenti i diritti sociali dei cittadini: alla scuola, alla salute, al lavoro. Con la violazione del dovere di solidarieta' sociale (articolo 2 della Costituzione), a scapito degli enti locali delle aree piu' deboli.

Non solo. Giorgio Guerrini, neo presidente di Rete Imprese Italia, che raggruppa due milioni di piccoli imprenditori, lancia l'allarme. In un'intervista all'Ansa adombra il rischio - per noi e' una certezza - che il federalismo si traduca in un aggravarsi della pressione tributaria per tutti i cittadini. I decreti produrranno un aumento dell'imposizione fiscale a livello locale. In Italia, secondo i dati dell'ultimo documentoOcse, il rapporto fra tasse locali e prodotto interno lordo e' passato dal 2,9 per cento del 1990 al 16,1 del 2008, contro una media europea del 12,4 per cento. I calcoli diffusi dalla Cgia di Mestre confermano che i cittadini italiani pagano un prezzo alto al fisco locale: 1233 euro a testa. E la dilatazione delle assunzioni clientelari si trasforma in un ulteriore aggravio fiscale per gli esangui contribuenti italiani. Roma e' ai primi posti fra i comuni piu' tartassati dai tributi locali. Ma il federalismo fiscale consentira' ai comuni anche di sbloccare quest'anno le addizionali Irpef ferme al 2008. E le Regioni potranno portare dal 2015 l'addizionale dall'attuale 1,4 per cento al 3 per cento per i redditi sopra i 28.000 euro. Possibilita' di aumento anche per l'Irap, su cui le Regioni avranno ampi spazi di manovra.

PAESE SPACCATO
Intanto il distacco del Nord dal resto dell'Italia sta avvenendo in modo irreversibile. Il primo colpo, e' bene ricordarlo, venne dalla riforma del Titolo V dellaCostituzione, che attribui' alle Regioni competenza legislativa concorrente con lo Stato in materie come rapporti internazionali con l'UE, lavoro, istruzione e sanita'. Una vera follia! I risultati della legislazione concorrente in materia di istruzione si sono visti con lo spettacolo desolante del comune di Adro, il cui sindaco leghista ha preso iniziative razzistiche e lesive della unita' nazionale. A parte la bandiera della Lega nella scuola, egli ha deciso che «se il genitore non paga, l'alunno non mangia a scuola e se ne torna a casa».

Una misura che colpisce gli immigrati e i senza reddito, anche se bravi a scuola. E a questa decisione Bossi, Berlusconi e soci hanno reagito con un'alzata di spalle. Come hanno fatto dopo l'inaugurazione della scuola, tappezzata di emblemi leghisti e intitolata ad un fondatore della Lega Nord senza consultare l'autorita' scolastica locale. Bandita, inoltre, la bandiera italiana, per sottolineare la prevalenza dell'identita' locale su quella nazionale. L'ultimo episodio di queste scelte dissennate e' il divieto di alternativa al “menu padano” per gli scolari. Solo un analfabeta come Umberto Bossi poteva ispirare una simile cretinata, che danneggia i meno abbienti. A Lazzate, in Brianza, (Lazzza'a comune della Padania, si legge sul cartello) le strisce pedonali sono verdi e le vie si chiamano Pontida, Padania, Carroccio, Sole delle Alpi e roba del genere. La locale osteria ha preso l'impegno con il comune che per vent'anni non puo' servire pizza ne' couscous, ma solo cucina lombarda. Episodi che indicano una strategia politica precisa che va verso secessione e barbarie.

La modifica del titolo V, voluta da De Mita, D'Alema e da Giuliano Amato, subi' nel 2004 le critiche di Giuliano Vassalli. Che espresse «antipatia profonda per la riforma del 2001 del centrosinistra», parlando di «manovra elettoralistica varata, con scarsa maggioranza, a favore del federalismo». Vassalli auspico' di «rinvigorire la legislazione esclusiva dello Stato su materie su cui la competenza non e' frammentabile».

Altrettanto critico fu il giudizio dell'allora onorevole Giorgio Napolitano che, chiamato in causa per avere promosso la commissione De Mita, cui subentro' poi D'Alema, ammise di voler «rafforzare i poteri del primo ministro», ma trovo' «orripilante» la nuova formulazione dell'articolo 117. Non meno feroce la critica del costituzionalista Mauro Ferri, che osservo': «quando la Costituzione cominciava a funzionare, si e' cominciato a volerla cambiare con le varie commissioni. (...) Dellabicamerale D'Alema meglio non parlare, meglio non esprimere giudizi su cio' che usci' fuori da quella bicamerale, “tra cui il famigerato premierato, che poi per fortuna cadde”, e il famigerato titolo V del 2001». Sulla stessa linea un altro costituzionalista, Augusto Barbera: «la riforma del titolo V ha gia' prodotto non pochi danni alla governabilita' del Paese».

Nonostante queste critiche aspre e il contenzioso Stato-Regioni che sommerge la Corte, Giuliano Amato ha dichiarato il 14 gennaio scorso, dinanzi all'Accademia dei Lincei, che «la svolta federale in atto servira' a superare l'incompiutezza della unificazione italiana». Un trasformista, Amato, braccio destro di Craxi, che mira alla presidenza della repubblica con l'appoggio del centrodestra e di Bossi. Il federalismo accettabile e' solo quello solidale. Convinti, con Ciampi, che «per diffondere in Europa un generale benessere, maggiore giustizia sociale, un piu' alto livello di democrazia», il federalismo richiede «cultura politica, accresciuto impegno civile di amministrati ed amministratori, nuovo patriottismo regionale, nazionale ed europeo».

Ma Carlo Azeglio Ciampi riconobbe che la nascita delle Regioni era stata una delusione: non avevano saputo evitare «costosi doppioni», una «proliferazione burocratica, dannosa per lo sviluppo di ogni regione» e - io aggiungo - la crescita di corruzione e crimine organizzato. La mafia continua a gestire le risorse destinate alle regioni provenienti dallo Stato e dall'UE , come confermano Commissione Antimafia e DNA.

IL SENATUR FEDERALE
Parlando del federalismo non dimentichiamo che Bossi e premier mirano allo stravolgimento della Costituzione, gia' tentato nel 2005 con Senato Federale, Corte Costituzionale e federalismo fiscale. Il senato Federale, approvato dal Parlamento nel 2005, fu bocciato dal referendum popolare. Giuliano Vassalli ammoni' che esso realizzava il predominio del Senato federale sulla Camera ed era «un istituto ibrido, incomprensibile in piu' punti». La Lega vuole infatti un Senato federale con poteri piu' ampi di quelli della Camera. E il potere di eleggere 4 membri della Corte Costituzionale, mentre alla Camera ne resterebbero solo 3, (oggi ne spettano cinque al Parlamento in seduta comune).

Con l'aumento delle toghe di nomina politica, la Consulta non sarebbe il giudice imparziale delle leggi, ma un organo della maggioranza. E dunque non in grado di dichiarare la incostituzionalita' delle leggi approvate dalle maggioranze di centrodestra e di centrosinistra, a partire dal lodo Alfano. Al Senato spetterebbe un groviglio di competenze, tra cui un potere di veto sui rapporti internazionali, tutela e sicurezza sul lavoro, istruzione, ricerca scientifica e tecnologica, salute, finanza pubblica e sistema tributario. Un guazzabuglio che porterebbe alla paralisi del Parlamento ed alla disgregazione del Paese. Farraginoso era poi il sistema escogitato dalla Lega per disciplinare i rapporti tra Camera e Senato federale nella formazione delle leggi. Una riforma, dunque, fatta per aumentare i conflitti. In realta' la Lega tende alla secessione morbida del Nord dal resto dell'Italia.

Una conferma dell'incidenza negativa del federalismo sullo sviluppo viene dalla Corte dei Conti: i magistrati contabili hanno denunciato, nel 2009 e 2010, che la corruzione dilaga, essendo divenuta una tassa immorale ed occulta, pagata dai cittadini, pari a 50-60 miliardi di euro all'anno. «Un fenomeno che ostacola, al Sud, gli investimenti esteri». Nella classifica della corruzione, tra le prime cinque regioni - afferma la Corte - quattro sono del sud: Sicilia (13% del totale delle denunce), Campania (11,46%), Puglia (9,44), Calabria (8,19) preceduta dalla Lombardia con il 9,39 del totale delle denunce. A cio' si aggiunge l'aumento della spesa corrente del 4,5% (stipendi e pensioni): un costo insopportabile per la collettivita'.

D'altra parte, guardando ad Adro e Lazzate, capiamo che il federalismo tende a proteggere gli interessi particolari della Lega contro quelli dei cittadini delle altre regioni d'Italia e contro gli stranieri. E ad intaccare settori vitali. La scuola non sara' piu' luogo del confronto pluralistico fra giovani di diverse culture, etnie e religioni, ma quello in cui la formazione si frantumera' nelle varie regioni a seconda delle diversita' religiose ed etniche, con il vanificarsi della speranza di costruire una comune cittadinanza democratica, secondo i principi di solidarieta' e tolleranza.

Nella sanita' saranno avvantaggiate le Regioni piu' ricche rispetto a quelle piu' povere, meno garantite rispetto ad un bene primario quale e' il diritto alla salute. Cio' lederebbe l'idea unitaria dello Stato, pensata dai padri costituenti quale «forma fondamentale di solidarieta' umana». Il parlamento nazionale, che legifera su diritti e liberta' fondamentali dei cittadini, sul lavoro, sulla indipendenza dei magistrati, sul pluralismo della informazione, sui sistemi elettorali e sui conflitti di interesse, perderebbe la sua centralita' e la sua liberta'. Il solo effetto positivo dello scandalo che travolge il premier Silvio Berlusconi e' - speriamo - l'affossamento del federalismo.

Tratto da La Voce delle Voci di Febbraio 2011

Fonte: L'Infiltrato

martedì 15 febbraio 2011

Scopelliti Bravo 7+


Mentre tutti gli Italiani vorrebbero un parlamento costituito da deputati e senatori eletti con il voto di preferenza e non come è oggi nominati dalle segreterie dei partiti attraverso liste bloccate, spesso non per qualità e professionalità, ma per clientelismo,nepotismo,affarismo,escortismo,oppure se indicato e consigliato (sigh) dal compare di turno. Il nostro presidente Scopelliti,alcuni giorni fa,ha partorito la grande idea democratica,di introdurre le liste bloccate ed eliminare le preferenze anche in Calabria. "Con le liste bloccate -ha spiegato nell'intervista il Governatore- si responsabilizzano i partiti, in questo caso le segreterie regionali, si abbatte il meccanismo della rincorsa del consenso a ogni costo e si chiudono le porte in faccia ai singoli imbecilli che a ogni elezione producono accordi criminali e clientelari con la ‘ndrangheta.
Io credo di non aver capito bene !e mi chiedo: se fosse così come afferma il governatore, sarebbe molto più facile per i partiti produrre accordi criminali e clientelari con la 'ndrangheta' in quanto verrebbero posizionati capolista con la certezza di essere eletti, gli uomini d’onore tanto temuti da Scopelliti mentre sicuramente chiuderebbe la porta in faccia solo agli imbecilli come me che ancora credono nella democrazia ! Tutto ciò mi sembra incomprensibile e comunque mi adeguo ! Tuttavia caro Scopelliti ,con questa idea geniale,ti sei guadagnato un Bravo 7+ !!!

Remigio Raimondi
-Orgoglio Meridionale-

domenica 6 febbraio 2011

Federalismo !Le sette bugie a danno del Sud !!

di LINO PATRUNO

Il pareggio in Commissione significa che mezza Italia vuole il federalismo e mezza no. Mezzo Paese può fare una riforma del genere contro l’altro mezzo? Una riforma che è un nuovo Risorgimento, un’altra Italia 150 anni dopo? E si può farla come allora, con mezza Italia che conquista l’altra e l’assoggetta? E si possono ripetere tutte le belle conseguenze che ancòra oggi subiamo? Si può condizionare il domani con una riforma che non sia quanto più condivisa possibile? E come si comporterebbero dopo le due Italie una verso l’altra? E si può dividere l’Italia proprio mentre si celebra il compleanno della sua Unità? E può diventare il federalismo un mercato arabo in cui ciascuno tenta di strappare quanto più possibile a danno degli altri? E come funzionerebbe un siffatto nuovo Paese, cioè una Repubblica fondata sul colpo di mano?

Vedremo cosa succederà ora, voto non voto e dintorni. Il direttore De Tomaso ha spiegato ieri perché questo federalismo è un futuro peggiore del passato. Essenziale è però sapere che il Sud non teme il . Ma teme un nuovo Risorgimento tradito. E soprattutto respinge le bugie sulle quali il Nord della Lega vuole imporglielo. Senza le bugie, si può discutere quanto si vuole.

Anzitutto, non è vero che il Sud non sa utilizzare i soldi a sua disposizione. Questi soldi sono i Fas (Fondo aree sottoutilizzate) e i Fondi europei. I Fas li gestisce il governo: se sono stati inutilizzati, utilizzati male, utilizzati non per il Sud, prego rivolgersi allo stesso governo. I fondi europei sono a compartecipazione dei privati e dello Stato. Quindi per i progetti occorre una quota dei privati e una dello Stato. Questa molto spesso è mancata, o ha ritardato fino a far perdere il finanziamento. Se a utilizzarli male sono state le Regioni, vedere quante volte non si sono aggiunti alla spesa ordinaria dello Stato (quella fatta sia al Nord che al Sud) ma l’hanno dovuta sostituire. E quanto agli sprechi, che pure ci sono, prego controllare l’aumento continuo della spesa pubblica da parte di quello stesso Stato che bacchetta il Sud.

Due. Non è vero che tanti soldi passano dal Nord al Sud, quindi . E’ vero che ogni anno 50 miliardi scendono dal Nord al Sud, ma non da un territorio all’altro, bensì da chi più può a chi meno può: come in tutti gli Stati civili moderni. Passano anche dall’industriale all’operaio lombardo (sempre che l’industriale dichiari più dell’operaio). Ma poi la Banca d’Italia rivela che ogni anno tornano dal Sud al Nord 70 miliardi per prodotti e servizi del Nord acquistati dai meridionali. Quindi Sud in credito di 20 miliardi l’anno.

Tre. Non è vero che il federalismo fiscale costringa alla responsabilità: chi spende male e troppo, è giudicato dai suoi cittadini e non più rieletto. Un sindaco può spendere male al secondo mandato quando non è rieleggibile e quindi fregarsene. Ma due capisaldi del federalismo municipale sono la tassa sulla seconda casa e la tassa di soggiorno. La seconda casa ce l’ha in genere chi viene da fuori. E anche la tassa di soggiorno la paga il non residente. Entrambi cioè non votano lì. E quanto alla responsabilità, una cosa è sprecare, un’altra è dover spendere se troppe sono le necessità della gente, come normalmente avviene al Sud. E infine in Italia non si è mai visto (purtroppo) nessuno cacciato per eccesso di spesa più che di risparmio.

Quattro. Non è vero che il federalismo non farà aumentare le tasse e la spesa. Con meno di fondi da parte dello Stato, i Comuni dovranno aumentare le loro tasse. Però lo Stato dovrebbe diminuire le sue. Ma chi pagherà i 70 miliardi l’anno di soli interessi sul debito pubblico? E come potrà rinunciare a parte delle sue entrate uno Stato schiacciato dal peso di due Camere uguali, di quattro Polizie, delle Province, di un numero infinito di Authority (dalla concorrenza alla trasparenza), di quattro sistemi giudiziari (civile, penale, Tar, Consiglio di Stato), di migliaia di enti inutili, delle casse integrazione, del buco pensionistico? E quanti dipendenti pubblici passeranno dallo Stato alle Regioni e ai Comuni, distribuendo le funzioni invece di raddoppiarle?

Cinque. Non è vero che il divario fra Sud e Nord ( meno 33% di reddito, meno 30% di infrastrutture, il triplo della disoccupazione) potrà essere compensato dal fondo di perequazione. Nessuno ha finora saputo di quanto sarà. E se la perequazione non ha funzionato finora, figuriamoci dopo. Nessuno conosce neanche quanti saranno gli investimenti in infrastrutture al Sud. E il federalismo fiscale non può partire da basi così diseguali, i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Sei. Non è vero che lo Stato spenda più al Sud. E che se il Sud nonostante questo non è cresciuto, sono problemi suoi ma ora basta. Cliccare su Internet, ministero di Tremonti: spesa dello Stato più al Nord che al Sud, cioè l’anti-perequazione. E dal governo Amato in poi, mai rispettata la percentuale stabilita del 45% della spesa al Sud, non andata oltre il 36-37 per cento.

Sette. Non è vero che i sono il mezzo per evitare che una siringa costi 5 in Lombardia e 10 al Sud. I costi li fa il mercato. E possono dipendere dalla quantità di siringhe acquistate, dai fornitori, dal sistema di pagamento, dall’efficienza dei trasporti. Se ci sono abusi, li giudica la magistratura non un piano di tipo sovietico che fissa i prezzi per tutti.

Sette. Detto questo, non è vero che il federalismo fiscale risolverebbe tutti i problemi italiani. Risolverebbe al massimo quelli del Nord. Appunto.

Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno

mercoledì 26 gennaio 2011

Cassa del Mezzogiorno, finanziava davvero il meridione?

Di Carlo Napoli

Era il 17 marzo 1861, quando “per grazia di Dio e volontà della nazione” Vittorio Emanuele II di Savoia venne proclamato re d’Italia, completando il processo di unificazione nazionale. Tanto è stato detto su questa data, tanto si è scritto, tanto si è discusso sui reali motivi dell’unità, sulla reale supremazia sabauda, sui reali fini dei “Padri della Patria”. Non vuol essere mio intento, in questa sede, effettuare una disamina storica dei fatti, difforme da quanto ingiustamente inculcatoci durante la scuola dell’obbligo. Ottimi autori, quali Pino Aprile, Gigi di Fiore, Antonio Ciano e tanti altri, hanno lungamente e puntualmente dissertato sul “contro risorgimento”, portando al grande pubblico fatti ed eventi, riletti in ottica revisionista, ponendo l’accento su quanto non scritto e quanto non ricordato dai vincitori (che ovviamente hanno l’onere e l’onore di scrivere e trasmettere ai posteri la storia).

L’Italia è una, unica, indivisibile, è la mia patria, è la terra rappresentata in musica dall’inno nazionale di Goffredo Mameli, nel quale, tra l’altro, in un passaggio, nella seconda strofa, si legge:”…raccolgaci un’unica Bandiera; una speme…”., richiamandoci così all’unità nazionale sotto un solo simbolo: il Tricolore italiano. Bandiera gloriosa, dagli antichi natali, sancita dalla costituzione (art..12), tutelata dal codice penale (art. 292) e troppo spesso vilipesa da aizza popolo, qualunquisti, costretti ad inventarsi una terra geograficamente e storicamente inesistente, alla stregua della terra di mezzo di tolkieniana memoria. Con questa premessa, vorrei soffermarmi su quelli che, molto frequentemente ed a vanvera, vengono definiti gli sprechi del Sud, sulle tante opere incompiute, su quanto costa ai laboriosi cittadini del nord (che pagano le tasse) mantenere in piedi questo stato di cose, sul federalismo che finalmente metterà a posto ogni cosa e soprattutto sul concetto che le meridionali cicale sono puntualmente sovvenzionate dalle operose formiche settentrionali. All’Unità del Paese, calò con i piemontesi un tale dott. Lombroso che, dopo aver “studiato” le caratteristiche fisiche dei meridionali, affermò che si era in presenza di una razza inferiore, avendo essi un cranio più tondo ed addirittura una vertebra in meno rispetto alla superiore razza nordista. Purtroppo questa assurdità ancora oggi è presente nel modo di pensare di molti “padani”, unitamente all’altro grande assunto che vuole che al Sud si canti, si balli la tarantella e si passi la vita sdraiati al sole, scroccando sussidi alle casse dello Stato, che essi tanto amorevolmente contribuiscono a rimpinguare pagando le tasse, anche più del dovuto. Per questo motivo, i solerti neoceltici ritengono necessario ed urgente il federalismo, quale primo passo verso la secessione (utopia populista, momentaneamente accantonata per motivi utilitaristici).

Per fare un po’ di chiarezza, sia per noi meridionali che per gli amici del nord, vorrei analizzare alcuni dati inerenti l’utilizzo delle risorse pubbliche. Inizio con la famigerata Cassa del Mezzogiorno, fonte di tanti costi per lo Stato, di tanti guai e di tanto sudore costato a quella fascia di popolazione (celtico/ariana) che lavora. La Cassa ha operato dal 1951 al 1984 quando il governo di Bettino Craxi ne decise la soppressione, anche se continuò ad operare con il nome Agensud, fino al 1993, quando venne definitivamente chiusa dal governo di Giuliano Amato. Gli interventi erano estesi alle sei regioni meridionali, alle isole ed “alle provincie di Latina e di Frosinone, ai comuni della provincia di Rieti già compresi nell’ex circondario di Città ducale, ai comuni compresi nella zona del comprensorio di bonifica del fiume Tronto, ai comuni della provincia di Roma compresi nella zona della bonifica di Latina, all’Isola d’Elba, nonché agli interi territori dei comuni di Isola del Giglio e di Capraia Isola”. Tengo a precisare, questa parte dell’art.1 del Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno perché alla Cassa del Mezzogiorno si associano solo le regioni meridionali, e mai i comuni del Piceno o delle province del Lazio!! Con tale legge istitutiva si approvava un “programma quinquennale contenente gli obiettivi generali e specifici dell’intervento straordinario e l’indicazione dei loro effetti sulla occupazione, la produttività ed il reddito” affermando che “lo sviluppo delle Regioni meridionali costituisce obiettivo fondamentale del programma economico nazionale”, l’intento quindi era quello di finanziare opere straordinarie, che dovevano essere funzionali alla formazione di un tessuto infrastrutturale che favorisse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Ciò, purtroppo, come ben sappiamo, non è avvenuto. Solo nel primo decennio la Cassa ha tentato di ridurre lo squilibrio economico tra le due grandi aree del Paese, dedicandosi al miglioramento della viabilità, alla costruzione di dighe per le centrali idroelettriche, alla costruzione di fognature e acquedotti, non tralasciando il risanamento idrogeologico di zone particolarmente esposte a tale rischio. Successivamente è iniziato il degrado e la bassa qualità della spesa, compresi fenomeni diffusi di illegalità ed il passaggio definitivo alla politica assistenzialistica nella gestione dei fondi di cui veniva dotata la Cassa per il Mezzogiorno. Nel quarantennio di attività, l’investimento complessivo della Cassa per il Sud è stato calcolato in 279.763 miliardi di lire (circa 140 miliardi di euro), con una spesa media annuale di 3,2 miliardi di euro. Cifre molto grosse, ma esaminandole bene si scopre che esse risultano essere circa lo 0,5% del PIL, (corrispondente alla somma annua versata attualmente dall’Italia per gli aiuti ai Paesi del Terzo mondo e sicuramente inferiore al costo del ripianamento del deficit delle Ferrovie dello Stato) contro gli investimenti pubblici al nord che nello stesso periodo assorbivano il 35% del prodotto interno lordo.. Volendo aggiungere al danno la beffa, il Senatore a vita Emilio Colombo scrive: “La Cassa operò per modernizzare il Sud e creò le condizioni per un grande mercato di cui profittò la struttura industriale del Nord pesando sulla ineguale «ragione di scambio» tra industria e agricoltura e quindi tra Nord e Sud e per classi e generazioni”.

La legge del 1950, infatti, prevedeva che gli enti locali potessero evitare la gara dando gli appalti attraverso trattative dirette in concessione, ciò causò, come ricorda Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto per gli Studi filosofici, che poiché al concessionario “era possibile trattenere per sé la maggior parte dei soldi”, accadde che “si precipitarono nel Sud le industrie del Nord, che fecero man bassa per la costruzione delle dighe: ne spuntarono dove erano utili e non dove non lo erano. Venivano a costare anche 100 volte più del dovuto”. Nacquero così negli anni ’60 le cosiddette «cattedrali nel deserto», non utili al Mezzogiorno, ma progettate in funzione dello sviluppo del Nord. Citando il prof. Uccio Barone:”si pensi al centro siderurgico di Taranto che ha prodotto i tubi di ghisa impiegati per la realizzazione del grande gasdotto siberiano, e pagati dai russi con la fornitura a basso prezzo di energia per le regioni settentrionali. Gli stessi poli petrolchimici di Priolo-Melilli, Gela e Milazzo sono risultati funzionali all’autosufficienza energetica del Nord industriale, lasciando alla Sicilia i guasti del dissesto ambientale. Nell’ultimo periodo, infine, la crisi economica mondiale e l’impatto traumatico della globalizzazione hanno dissolto l’azione della Cassa in interventi frantumati di «salvataggio» a sostegno di aree colpite dalla de-industrializzazione”. In uno studio del Fondo Monetario Internazionale si attesta che nell’ultimo periodo di vita della Cassa le imprese che hanno beneficiato dei finanziamenti sono state grandi imprese del nord per l’88,33% e del Sud per il 9,4%. Considerato che il sistema produttivo del sud con l’unità d’Italia è stato distrutto dalla concorrenza delle imprese del nord e dalla politica industriale, monetaria e tributaria piemontese, la Cassa del Mezzogiorno doveva rappresentare la spinta propulsiva per un nuovo sviluppo industriale meridionale. Così non è stato, e la Cassa, invece ha prodotto solamente sprechi che hanno favorito il prosperare della delinquenza, della corruzione, delle mafie, a discapito della stragrande maggioranza di cittadini che ogni giorno onestamente tirano la loro carretta (e pagano anche le tasse) per poi sentirsi anche denigrare da qualche zotico padano. Per questo e per mille altri motivi, al sud, in molti sono in apnea in attesa di qualcuno che porti avanti le istanze meridionali non in chiave territorialista, ma operando un confronto sereno ed aperto con tutte le realtà del Paese continuando a considerare l’Italia unica, senza separatismi, senza contrapposizioni, senza beceri interessi di bottega che possano essere presi in considerazione solamente da chi è “arretrato” non dal punto di vista geografico, ma culturale. E’ giunta l’ora di smetterla con il vittimismo, di dire basta alla ghettizzazione ed alle continue ingiurie operate da schizofrenici meridionalfobici, rivendichiamo il diritto all’uguaglianza, intesa come diritto di tutti noi ad avere le medesime possibilità. Reagiamo compatti, nei confronti di chi attenta all’unità nazionale, evitando di minimizzare gravi vilipendi, derubricandoli a mero folklore o a propaganda fine a se stessa.


Fonte:Generazione Italia