di Lino Patruno
Come sono bravi a suonarsela e a cantarsela per conto loro. Il signor Pier Luigi Celli, direttore generale dell’Università Luiss, scrive una lettera-articolo a Repubblica in cui invita il figlio laureando a lasciare l’Italia che non è un Paese da giovani. Guardati attorno, gli dice. E potrai capire che l’idea che lo studio sia la sola strada per ottenere il lavoro che vorrai è purtroppo sbagliata. Perché ha sempre meno peso in una società «divisa, rissosa, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e onestà». Una società di «carriere feroci fatte su meriti inesistenti, a meno che non sia un merito l’affiliazione politica, di clan, familistica». E in cui, «se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque, un centesimo di una velina o di un tronista, forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai». Difficile che un padre qualsiasi non condivida, sia pure con la morte nel cuore. O che, pur non condividendo l’invito ad andar via, non la pensi allo stesso modo. In ogni caso, una dolente realtà se non si imbocca per principio la scorciatoia in questo mondo di ladri, ladri anche di giustizia verso il talento. E se il portaborse funziona, chissenefrega, non sarò io a dover cambiare il mondo. Anzi il tronista o la velina, si diventa anche famosi. E perché no, l’imbroglione, figurati se mi faccio scrupoli con tanti farabutti a piede libero. Insomma, qualcosa che ci riguarda tutti, non solo chi ha figli. Perché un Paese in cui si parla più di trans e di Balotelli che di valore e di rispetto reciproco non piace a nessuno. Una deriva penosa e quotidiana.
Immediata conferma. A Celli replica l’on. Daniela Santanché, leader del Movimento per l’Italia. Titolo del Giornale: «Se il manager di regime sputtana il suo Paese». Quel ragazzo dovrebbe fuggire da un padre simile, altro che. Un padre dall’«incredibile faccia tosta», anzi «un miracolato che ha scalato mille incarichi senza un vero perché». E giù l’elenco, invero nutrito, di direzioni, presidenze, consigli di amministrazione, onori e prebende di un percorso professionale e politico all’ombra della sinistra, una «carriera specchio fedele del Paese che aborrisce». Polemica di schieramento che può pure starci, con ragioni o torti di Celli o della Santanché. Ma polemica esattamente «specchio di un Paese» dalla penosa e quotidiana deriva.
Se non gli abbiamo fatto perdere un minimo di capacità critica, se non gli abbiamo tolto ogni fiducia e se non sono ormai imbalsamati dovrebbe essere amara materia per i nostri ragazzi. E di ribellione per lo spettacolo di guitti e di saltimbanchi che gli allestiamo. Potrà farlo chi non ha scelto il miraggio delle veline e dei tronisti. Ancor più ribellione dei ragazzi del Sud, molto meno fortunati mentre lassù se la cantano e se la suonano per conto loro, un dibattito da privilegiati.
È una generazione di ragazzi del Sud col trolley alla mano dopo la valigia di cartone dei nonni. E con una sentenza storica di «briganti o emigranti» che forse non conoscono ma che pesa quasi inalterata come un destino. Ragazzi che partono con quella normalità che non prevede più un rancore né un’alternativa, dopo la laurea è così e basta. O che comunque è nelle probabilità se non si vuole consumarsi a inviare curriculum, se un ingegnere non vuole finire al call center o una biologa alla cassa dell’ipermercato.
Difficile fermarli. Una necessità di sopravvivenza che passa sul risentimento per le proprie qualità non riconosciute. Ma benedetti siano se si ribellano anche da sudisti, ciò che i loro padri ancora non fanno. Padri di qui che certamente, nonostante tutto, gli direbbero più di restare che di andarsene. E non solo per il richiamo del filo d’erba o delle radici. Restare per disseminare della bellezza delle loro energie una terra madre intrisa di sacrificio e di fatica. E della quale andare sempre orgogliosi nelle vie del mondo. Perché se qui da 150 anni lo Stato manca al suo dovere, qui ci hanno pensato le schiene curve e le mani nodose a trasformare il Sud nella modernità, a farne comunque un posto fra i più sviluppati del globo, nonostante l’aumento del divario con un Nord da 150 anni beneficiato invece da uno Stato premuroso.
Anche se continuano a salire sui treni, la speranza è che i nostri ragazzi non lo facciano da vinti. Che vadano per tornare. E che non cedano alle funeste sirene del «non c’è più nulla da fare». Non hanno ceduto i contadini che hanno trasformato in un giardino una terra di pietre. E non cedono quelli che, come si dice da noi, hanno continuato sempre a portare «la pietra al parete», a dare il loro apporto. Non cedono neanche i vecchi che continuano a piantare alberi pur sapendo che non riusciranno a vederli cresciuti ma che li vedranno i loro figli. Per questo se ne attende il ritorno, perché ricomincino da qui, da questi alberi.
Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno
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