venerdì 30 gennaio 2009


Questo ponte s'ha da fare
AUTORE: Giuseppe Cruciani
EDITORE: RIZZOLI
COLLANA: 24/7
PAGINE: 180
PREZZO: 16,00 Euro
ANNO DI PRIMA EDIZIONE: 2009
ISBN: 17028196

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IL LIBRO
Lo stretto di Messina e le opere incompiute che bloccano l’Italia

251 a.C.: il console Lucio Cecilio Metello unisce Calabria e Sicilia con un sistema di zattere galleggianti. Un ponte provvisorio per elefanti, carri e soldati.

1870: l’ingegnere Carlo Navone progetta un tunnel ferroviario. Solo quattro anni di lavoro e otto chilometri di binari sottomarini per collegare Reggio e Messina.

2008: se ne sono occupati 33 governi, 234 ministri e sono passate 12 legislature. Un quintale di documenti e 160 milioni di euro spesi. Lo hanno promesso tutti: Mussolini, Craxi, Prodi e Berlusconi. Ma del ponte nemmeno l’ombra.

Cosa saranno mai tre chilometri? Passeggiando in tutta tranquillità, si percorrono in meno di tre quarti d’ora.
Eppure è dalla notte dei tempi che tre chilometri di mare tengono lontana la Sicilia dal resto d’Italia. File interminabili per imbarcarsi sui traghetti, disservizi e ritardi da record: ecco come tre chilometri si trasformano in un’avventura costosa. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare del Ponte sullo Stretto, definendolo ogni volta in un modo diverso: grande opera, ecomostro, segno del progresso, favore alla mafia, simbolo di rinascita... Mille e più attributi che hanno alzato un inutile polverone attorno a un progetto considerato l’emblema di un Paese immobile.
Con Questo ponte s’ha da fare, Giuseppe Cruciani svela impietosamente scandali, cifre e retroscena dell’Italia dei cantieri bloccati, dall’autostrada Tirrenica alla metropolitana di Roma, dai treni ad Alta Velocità alla Salerno-Reggio Calabria. Ma nella classifica delle opere incompiute, il ponte resta al primo posto: la società Stretto di Messina è nata nel 1971, da allora sono stati spesi fiumi di denaro da governi di qualsiasi colore, con l’unico risultato di aver accatastato una montagna di progetti e documenti. Oggi continuiamo a chiederci se vale la pena di affrontare questa impresa, trascurando un dato incontrovertibile: tornare sui nostri passi costerebbe molto più che portare a termine il lavoro. E’ ora di accettare questa sfida, non tanto per scrivere l’ultimo capitolo dell’unità d’Italia, ma per far sì che tre chilometri tornino a essere tre chilometri. Per chiunque.

mercoledì 28 gennaio 2009


Dalla ‘Prefazione’ alla ‘Philosophia sensibus demonstrata’ (1591), di Tommaso Campanella,filosofo calabrese,contro il filosofo Marra:”… e sappia questo saccente che chiama con disprezzo Telesio ora Bruzio ed ora Calabrese, sappia che la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni. Questa regione incominciò ad essere abitata dopo il Diluvio per la fertilità del sito da Aschenaz, nipote di Noé, nei pressi di Reggio. Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene, come ora è detta Calabria, il cui nome significa quasi ‘regione abbondante’; fu anche detta Enotria, Morgezia, Sicilia, Magna Grecia, per distinguerla dall’altra Grecia, la quale veniva superata da essa in tutte le cose. E fu detta anche Italia, da cui ora è derivato il nome a tutta l’Italia, che è una parte dell’Europa (...). Fu anche detta Brettia da Brento, figlio di Ercole, che una volta fu re di questa regione, come narrano nelle loro storie gli antichissimi scrittori, Stefano, Eustazio ed Antioco (...). Presso i Calabresi vigoreggiano anche tutte le discipline e l’intera scienza umana, e quella che ora s’insegna nelle scuole trae origine dalla Calabria. Platone infatti e il suo discepolo Aristotele furono allievi di Calabresi (...). Platone infatti si portò da Atene in Calabria, e qui apprese tutto da Timeo, Euticrate ed Arione, tutti di Locri. (...).La scuola di Pitagora fiorì presso Crotone, e da tutto il mondo venivano a lui filosofi e re, come narrano svariati scrittori; e dopo la sua morte la sua scuola fiorì a Locri e a Reggio sotto diversi maestri; e a quel tempo in tutta la regione non si contavano i filosofi e le donne sapienti che scrissero molte opere”.

lunedì 26 gennaio 2009

Chiamatela come volete la Secessione: leggera, dolce, palese. Di fatto, l'Italia unita e solidale non esiste più. Tutti sono uniti contro il Sud.
Da Destra a Sinistra, l'Italia padanizzata si gode soddisfatta l'abbraccio gioioso tra l'invalido ma rancoroso Bossi e l'effimero Calderoli.
Preceduta da una rabbiosa campagna di denigrazione costruita ad arte, che ha abilmente amplificato la "Questione rifiuti", e più recentemente il caso Romeo, la "falange nordista" si accinge a scardinare definitivamente l'ultimo ma tenace baluardo della coesione nazionale.
Passa, dunque, al Senato il cosiddetto "federalismo fiscale", vero e proprio "manifesto leghista" con il sostegno di tutte le formazioni politiche, salvo la strumentale eccezione di Casini. E, il Senatur ringrazia: "Senza la Sinistra non si faceva niente, con il federalismo eravamo ancora in Commissione…".
Un Veltroni compiaciuto per aver "represso" l'opposizione interna, apre un confronto con la Lega e "Si mette in sintonia con il Nord dove il tema del federalismo fiscale è fortemente sentito dagli elettori".

PDL, Lega Nord, MPA, con la connivente e sciagurata astensione dell'Italia dei Valori e di un PD sempre più versione Nord, festeggiano insieme il primo traguardo di quel processo di liberazione dall'inservibile ed impresentabile Mezzogiorno.
E Galan, Governatore berlusconiano del Veneto, ringhia velenoso contro il Sud: "Se smettessero di mandare i loro malati in Veneto, non avremmo neanche queste liste d'attesa".
Gli indegni eredi di quei valori liberali e socialisti fraternizzano amorevolmente con gli alfieri di "Forza Etna" e di "Terroni beduini".
Così l'Italia dei Padri fondatori della Costituzione affonda miserevolmente nella palude degli egoismi più beceri.

Poco interessa che del federalismo fiscale leghista non si conoscano i costi – che si prospettano giganteschi – e che non ci siano le coperture e le risorse necessarie. Poco interessa che il moltiplicarsi dei centri di spesa determinerà inevitabilmente un aumento consistente della pressione fiscale locale e generale. Poco interessa che il Mezzogiorno, più arretrato, sarà privato di risorse determinanti per lo sviluppo delle sue infrastrutture e per i suoi servizi essenziali, mentre le decisioni fondamentali saranno prese da ministri quasi tutti del Nord.
Ciò che conta è soddisfare gli strateghi della divisione, della discriminazione e dell'egoismo sociale.
Decine di milioni di cittadini meridionali, oggi, sono abbandonati a se stessi e spinti sempre più – come vorrebbero quelli di lassù – verso la "discarica terzomondista".

Non esiste nessuna forza politica nazionale cui interessi realmente il futuro del Mezzogiorno. Solo inutili, ridicole ed ipocrite dichiarazioni di pochi a fini esclusivamente elettorali.
E mentre gran parte dei politici meridionali, cinici dilapidatori delle risorse gestite e veri traditori delle nostre comunità, sono travolti da scandali ed inchieste giudiziarie, il Meridione perde drammaticamente peso e dignità politica.

Il Sud, dunque, giunto a questo punto, deve prendere atto che il Patto tra gli italiani volge al termine, e che per fronteggiare un tale coacervo di poteri ostili è necessario difendersi da soli.
Bisognerà presto ritornare ad essere una comunità unita e, attraverso l'azione di un grande movimento politico meridionale, costituito da gente onesta e preparata, entrare nelle istituzioni nazionali ed europee, e battersi per gli interessi esclusivi delle nostre popolazioni.
Ora non è più il momento della riflessione e delle chiacchiere. È tempo d'agire.
Bisognerà riprenderci la gestione dei nostri destini, creando una nuova classe dirigente in grado di tutelarci e di progettare concretamente il nostro futuro.
È tempo che gli imprenditori meridionali scendano in campo e sostengano fattivamente chi difende i loro interessi e la loro dignità.

Noi de l'Altro Sud abbiamo iniziato da tempo questa battaglia, raccogliendo un consenso insperato, che dimostra la vitalità e la voglia di riscatto della nostra gente.
Dateci sempre più forza e, tutti insieme, con determinazione e lealtà, restituiremo al Sud il prestigio della sua nobile storia.
25/01/2008 Antonio Gentile

martedì 20 gennaio 2009


Di Pino Aprile

da La Stampa di Lunedì 19 Gennaio 2009, pag.19L’Unità d’Italia uccise la più grande acciaieria del Sud“Artigiani del ferro qui a mongiana? Nemmeno uno. Dopo quel che gli hanno fatto…”. Il dottor Vito Scopacasa, cardiologo, è sindaco del paese.

“Qui c’erano le più grandi e moderne acciaierie d’Italia, sino al 1860”, spiega Sharo Gambino, da poco scomparso, cantore delle Serre calabresi.
“Importavano maestranze bresciane, tecnici inglesi, francesi, svizzeri, tedeschi, in aggiunta ai locali”. Ora, non un fabbro, dov’erano sino a 1500 operai siderurgici.
L’Unità d’Italia comportò smantellamento e svendita (come ferrovecchio) degl’impianti, fine d’una tradizione millenaria, emigrazione nel bresciano, a Terni, negli Stati Uniti, in Canada.
“E adesso potremo raccontarlo”, dice il dottor Scopacasa. “Fatto questo, smetterò di fare il sindaco”.
“Questo” è recuperare gli stabilimenti, farne un museo, ridare vita e memoria a Mongiana. Per messa in sicurezza degli ambienti, acquisto di arredi e materiali sono arrivati 600mila euro dalla Regione Calabria(dai beni culturali, mai niente). “In estate dovremmo avere i turisti al museo. Lo gestirà una Fondazione privata, il comune avrà funzioni di controllo. Ci sono voluti 34 anni”.L’Orgoglio
Come racconti il quieto orgoglio di questo professionista, mentre entra, fra due storiche colonne di ghisa, nella fabbrica risorta; mostra l’area-altiforni, dove, in estate, hanno fatto concerti? “Gente che non si è mai mossa da Mongiana non sapeva cosa c’era qui: e fabbrica, altiforni sono fra le case di periferia!
Rimozione mnemonica. Si è voluto dimenticare, per difesa di un dolore troppo forte. Non tutti ci sono riusciti. “Sorse la ferriera, più di 200 anni fa, poi il paese”, ricordava la signora Marisa Tripodi, originaria di Mongiana(amministrava una fonderia a Lumezzane, Brescia).
“Chiuso lo stabilimento, iniziò a morire il paese. Lo lasciai a 19 anni, negli anni sessanta, Un secolo prima, spenta la ferriera, partirono per le Americhe solo uomini, chè speravano del ritorno. Noi no: via a famiglie intere; ci chiudevamo la porta alle spalle e un’altra casa restava muta. Mia nonna e la mia bisnonna lavoravano in ferriera. La campana della chiesa annunciava la paga.

Noi mongianesi sradicati ci siamo ritrovati nelle fonderie del bresciano: 150 famiglie di Mongiana, circa 500 persone, solo a Lumezzane che è ormai la vera Mongiana, per noi delle Serre: quella originale, nel parlare comune, è ridotta a “Mongianella”. Le nostre migliori forze e intelligenze le abbiamo spese lontano. Mi dispiace non averlo fatto per il mio paese. E’ un rammarico, sa?
Un rammarico che sfiora la colpa: ma cosa potevamo fare?”Si sale a Mongiana, dallo Jonio o dal Tirreno, per strade, storte e strette; sul fianco di monti instabili, distanze che il tempo dilata. Era il più ricco distretto minerario e siderurgico del Regno delle Due Sicilie. I Fenici già producevano ferro qui; nei 900 anni prima dell’Unità, la siderurgia fù l’industria delle Serre, alimentata da minerali ferrosi di queste rocce, tecnici e operai locali, energia ricavata da boschi, cadute d’acqua e carbon fossile del posto. Solo Cesare Fieramosca, fratello scemo di Ettore, (l’eroe della disfida di Barletta), che ebbe in feudo l’intero distretto siderurgico, non seppe che farsene.Ci capitò nel 1974, l’architetto Gennaro Matacena, napoletano, specialista in archeologia industriale e restauro monumentale(suo il recupero delle Fonderie Medicee di Follonica): “Mi impressionarono le colonne di ghisa. In paese, nessuno ricordava nulla: reticenza, imbarazzo, pudore… Dissi all’allora sindaco, Vincenzo Rullo: “Sa che lei ha un tesoro?” Lui spuntò un finanziamento dalla Cassa per il Mezzogiorno e acquistò la parte di fabbrica divenuta privata. Nell’antica residenza del capitano-sindaco ci indicarono una cassa: “Ci sono carte, lì…”: la pianta del paese e degli stabilimenti(poi restaurata nell’abbazia di Cava dei Tirreni)!”I BorboniFerriere e fonderie sono sul salto dell’Alaro. “Che emozione”, dice Matacena, “rinvenire, negli archivi di stato(grazie burocrazia borbonica!), lettere e documenti che raccontano vita e lavoro di quegli uomini”.Gli operai si sistemarono in baracche a ridosso degl’impianti. La bidonville conquistò, pian piano, pareti di pietra, poi un prete, la chiesa, adeguamento delle paghe, medico, farmacista, giudice di pace, esenzione della leva militare per gli operai e la prima cassa mutua per operai siderurgici, al mondo, ricordano Brunello De Stefano Manno e Gennaro Matacena(prossimi direttore e presidente della Fondazione), nel loro prezioso volume ‘Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana’. Gli abitanti salirono a quasi duemila. “Oggi meno della metà”, dice il sindaco. “Si campa di foresta e Forestale”.“Attenti ai … bisogni degli operai, i Borboni fecero costruire ‘luoghi immondi’: gabinetti, roba da signori, mica cespugli!”, narrava Gambino. “Ferdinando II si recò a Mongiana, per sancirne, con la sua presenza, l’interesse strategico. Aveva ordinato di gettare un ponte su un torrente. “Guagliò e ‘o ponte addò sta?”, chiese al funzionario incaricato. “L’avimme passato, maestà”. E il re: “M’avite futtuto!”L’acciaio delle Serre rese autono il Regno per la produzione di armi, i primi ponti sospesi in ferro d’Italia, la cantieristica della seconda flotta mercantile al mondo, dopo quella inglese, e l’industria ferroviaria di Pietrarsa: la più grande della Penisola(molti Paesi inviarono tecnici a studiarla; lo zar la fece copiare e riprodurre identica, in Russia: sorsero così le celebrate Officine di Kronstadt; i Savoia mandarono un generale; unificato il Paese, la fabbrica fu ridimensionata e si sparò sugli operai che protestavano: una strage).I riconoscimentiAncora nel 1861, gli acciai di Mongiana sono premiati all’Esposizione Industriale di Firenze el’anno dopo, a quella Internazionale di Londra. Ma per Torino, la ‘Ruhr calabrese’ è da chiudere. La scoperta genera incredulità, risentimento, protesta, poi furti, vandalismi, nei boschi compaiono i briganti, la casa del comandante è assalita, la folla calpesta il tricolore, vota ‘no’ al referendum per l’annessione.La delusione, scrissero gli amministratori comunali al governo, portò il crimine a un paese in cui, in un secolo, ‘possono attestarlo le Autorità civili della Provincia e le Statistiche de’ Tribunali’, mai c’era stato ‘un delitto di sangue, non un furto, non un reato’; perché i mongianesi rispettano ‘come sacra la legge, le persone, la proprietà e muoiono onoratamente di fame’. Esagerazioni? “L’emigrante proclamato, dagli Stati Uniti, ‘italiano più onesto d’America’ era di Mongiana”, dice il sindaco. “Mio prozio”.Gli altiforni furono spenti per sempre, le rotaie delle miniere vendute a peso.

Il complesso ceduto a un ex-sarto e garibaldino, poi deputato, coinvolto in una truffa allo stato. Mongiana fu condannata, perché si ritenevano sorpassati impianti siderurgici in montagna e non sul mare. Ma chiusa quella calabrese, si costruì l’acciaieria di Terni, fra monti più lontani dal mare: lì vennero fusi i macchinari di Mongiana.Nell’ultimo appello del consiglio comunale al governo unitario, si assicurava che gli operai erano disposti a ridursi la paga; retribuire loro, i capitecnici; e a produrre cose minime: pesi a metà del prezzo che lo stato pagava ad altri, contatori per mulini a lire 75 l’uno. A 100 lire, ebbe l’appalto una ferriera di Torino, ma i contatori risultarono difettosi.Ora, l’ex distretto siderurgico più grande d’italia, fa della memoria, pane.
“Museo, più indotto e centro di biodiversità della Forestale, e Mongiana”, dice il sindaco, “non risorge: nasce. Chè mò non è niente”.